
Juri Camisasca - -
Un semplice esistere. Titolo già di per sé esaustivo e sintetico, quello scelto dall’artista e compositore Juri Camisasca e dal teologo Paolo Trianni, docente all’Università Gregoriana di Roma. Un titolo “filosofico”, che essenzializza la complessità di un cammino. Che, per gli autori, consiste nell’unica vera possibile evoluzione umana dotata di senso pieno: il superamento dell’Ego. Quell’Io che, con la venuta al mondo, è il punto di partenza di ciascuno, ma anche ciò da cui siamo chiamati a emanciparci. Se vogliamo, appunto, essere gli originali attori di “un semplice esistere”, al di là dei processi educativi o diseducativi, dei condizionamenti e dei ruoli che la società ci induce ad assumere. In questo libro di “conversazioni” (Queriniana, pagine 224, euro 20,00), con il sottotitolo “La ricerca di Dio e la poetica di un artista controcorrente”, Trianni esplora, in costante dialogo con il prototipo di “cercatore” Camisasca, il percorso esistenziale di chi ha dipinto la propria vita con le personali tinte della originalità e dell’autenticità. «La ricerca di Dio è la ricerca della nostra vera natura – dice Camisasca in un passaggio del libro –. La sua base è l’abbandono dell’io. L’io è l’antitesi di Dio». Storico amico di Franco Battiato, Camisasca pubblicò il suo primo album La finestra dentro appena ventitreenne. Discreta l’accoglienza da parte di pubblico e critica, ma in lui fin da subito subentrò una profonda insofferenza verso un mondo in cui l’apparenza prevaricava la verità interiore. Così scomparve dalla scena e persino dalle consolidate amicizie finché abbracciò il monachesimo, approdando infine ai benedettini. Visse in monastero per più di dieci anni, per uscirne a vivere in una personale dimensione di romitaggio “laico” tuttora unico ospite nella dimora siciliana di Battiato, in una dependence di Villa Grazia, a Milo.
Camisasca, sono passati quattro anni dalla scomparsa di Battiato. Cosa prova?
«Franco è come se fosse sempre qui, dove io del resto vivo ormai da trent’anni. Purtroppo ho però visto cose in questi quattro anni davvero imbarazzanti. Mi ha ferito vedere come sia stata strumentalizzata la sua morte, tanti concerti per sfruttarne il nome. Mi sono un po’ arrabbiato, ma mi rendo conto che questo fenomeno va accettato. Molti in effetti hanno semplicemente inteso omaggiarlo. A partire da Alice, l’unica che può davvero cantare Battiato».
Ma lei come riesce a vivere così in solitudine?
«Leopardi diceva che la solitudine è come una lente d’ingrandimento, se stai bene stai benissimo ma se stai male stai malissimo. Io ho acquisito equilibrio: dipingo icone, leggo, medito. Non è importante quello che faccio, ma come lo faccio. È la presenza interiore che conta. Senza le distrazioni del mondo esterno, la ripetitività diventa una forma di disciplina».
Da milanese, di Melegnano, dopo tutti questi anni si sente siciliano?
«Non mi sento né siciliano, né milanese. Mi sento un uomo nel mondo, non ho radici. Amo semmai le radici profonde degli alberi. Purtroppo però li radiamo al suolo e ci togliamo l’aria vitale. Anche questo è un esempio di calpestamento della vita. L’uomo ha una prepotenza davvero distruttiva. È il cuore della questione, del resto. Questo Ego che ci separa dalla Luce».
Una sua frase quasi all’inizio del libro recita: «L’Ego fraintende tutto». «
Sì, è vero. È in sostanza il peccato basilare, quello rappresentato da Adamo ed Eva. Il senso sbagliato della nostra interpretazione della vita. Per questo ci sentiamo separati dalla vita. Ed è l’Ego che ci dà la sensazione di essere come delle entità autonome che vivono in virtù di una propria auto-capacità. Ma non è così, perché è la Vita che si manifesta e vive in noi. Certo, è giusto che ci sia l’individua-lità, perché è il punto di partenza. Ma da questo punto di partenza bisogna fare un percorso che è il ricongiungersi nella consapevolezza del corpo cristico. Il corpo dell’umanità, così come lo interpreta la Chiesa».
Vita universale ed eterna di cui noi siamo espressione…
«È questo il senso umano: non “io vivo”, ma “Cristo vive in me”. Dovrebbe essere questo il senso del cammino cristiano. Stante questa verità, ecco che siamo chiamati a collaborare. Non si raggiunge però il fine soltanto perché si riesce a capire questa verità intellettualmente. Bisogna semmai arrivarci con l’esperienza. Occorre fare questa esperienza di annullamento di sé. Simone Weil parlava di decreazione, laddove decrearsi è lo smantellarsi delle nostre sovrastrutture intellettuali ed egoiche. Liberarsi di tutte la zavorra che ci portiamo dentro per fare la scoperta della luce di Cristo in noi. Questo è il cammino richiesto a ogni cristiano, sia esso un monaco, un eremita o un padre di famiglia».
«La dimensione insondabile la troverai fuori città», come diceva in Nomadi cantata anche da Battiato…
«“Alla fine della strada”, aggiungevo però. In questo momento storico nel mondo pare essere in atto una grande offensiva di Satana. Siamo manovrati da forze oscure. Con questi pazzi megalomani che credono di avere in mano la Terra e scatenano guerre. È una cosa indicibile. È proprio in momenti così che ha ancora più valore e urgenza esaltare l’attenzione alla interiorità. Per dare senso a ciò che senso non sembrerebbe invece avere».
Dobbiamo saper vedere “il sole nella pioggia”, per citare un’altra sua canzone…
«Sì, perché l’uomo quaggiù vive proprio in questa perenne condizione. Siamo chiamati a vedere la luce anche nell’ombra. Credo del resto che tutti abbiamo dei contatti con il trascendente, soltanto che c’è troppa distrazione. Quando sento dire: ma questo Dio dov’è? Io dico: dove sei tu? Avvicinati a una sensibilità maggiore verso te stesso e verso la vita e vedrai che scoprirai grandi cose».
Com’è cambiato il suo modo di fare musica da quel primo album rock di mezzo secolo fa?
«Crescendo interiormente, è cambiato anche il mio percorso musicale. La musica che facevo all’inizio era legata al fatto che fossi all’oscuro di una dimensione intima di un certo tipo. Poi la trasformazione interiore ha implicato l’evoluzione anche delle parole, del linguaggio, del tono di voce, del modo di cantare. Una persona che fa una esperienza spirituale non può più mettersi a produrre cose non ispirate. Quindi anche l’espressione musicale ha risentito di questi riverberi. Anche riguardo all’uso degli strumenti».
In che senso?
«Da un uso quasi assoluto della chitarra sono passato all’harmonium che come sonorità mi porta ad avere una maggiore attenzione all’interiorità. La chitarra è più da compagnia, è molto più esteriore e ha una preponderanza ritmica. La ritmicità però distoglie dall’introspezione e dalla essenzialità. Ma con questo non rinnego il ritmo, che è anzi espressione della vita a partire dal battito del cuore. Sono comunque via via passato a quella che io chiamo musica meditativa».
Ascolta musica d’oggi?
«Sicuramente non ascolto né rap, né trap. Possono anche avere una loro cifra e un certo fascino per le nuove generazioni, ma non per me certamente. Non ne sopporto la volgarità e la violenza, che è davvero pazzesca».
Altro che il suo Carmelo di Echt…
«Eppure devo svelare che non sapevo nemmeno chi fosse Edith Stein. Poi un giorno in biblioteca, in monastero, mentre stavo facendo una ricerca su san Giovanni della Croce scorsi un librettino che sporgeva da una fila di volumi. Era Scientia Crucis. Lo presi tra le mani e iniziai a leggerlo, a partire dalla prefazione che parlava dell’autrice, Edith Stein. È stato come se un raggio di luce mi avesse colpito la mente. Da lì mi sono avvicinato alla sua figura e al suo messaggio. Ho successivamente scoperto che compio gli anni proprio nel giorno della sua ricorrenza. Un altro segno tra i tanti di cui è costellata l’esistenza. Siamo soltanto chiamati a coglierli».