sabato 23 dicembre 2023
Un clochard si trova quasi per caso a vestire i panni rossi e la barba bianca in un grande magazzino. E riceverà il più inaspettato dei regali
Santa Claus

Santa Claus - Jesson Mata / Unsplash

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L’aria profuma di neve. La porta il vento dalle montagne, accovacciate nel buio che circonda la città come pastori intorno a un fuoco. Dicono che farà ancora più freddo e oggi al tavolo della mensa è stato evocato il fantasma di Alfredo, trovato una mattina nel parco stecchito come un baccalà, dopo un gelata dell’inverno scorso. Io ho avuto la fortuna di trovare quella casa abbandonata da non molto, con la cucina economica a legna che ancora funziona. Così posso scaldare l’acqua e lavarmi. Sarò anche un barbone ma mi tengo pulito, non come certi che puzzano nel raggio di tre metri. Cammino per le vie del centro, sempre più affollate. C’è un clima di festa, una febbre di regali e acquisti. L’ultimo regalo io l’ho fatto a Caterina quando aveva già addosso il male che se l’è portata via. Un anello con una piccola pietra azzurra e quando gliel’ho dato ha pianto come una bambina.
Mi specchio nelle vetrine incorniciate dagli addobbi natalizi e col mio montone nemmeno troppo consumato potrei sembrare uno normale. A tradirmi se mai sono i vecchi doposcì rossi e blu che ho pescato da un cassonetto, ma i piedi asciutti sono tutto in questa vita randagia. Devo tenere a bada la bronchite e l’asma che mi salta fuori d’inverno e per il resto sto bene. A sessantotto anni suonati non mi posso lamentare.

L’alito fa la condensa, sento che il freddo mi entra nelle ossa ed è ora di fare tappa nell’agenzia di scommesse. Fuori il solito gruppetto di fumatori, con la cicca in bocca e la testa ritirata nel bavero del cappotto. Dentro un bel calduccio e mi metto vicino al termosifone, dove ci sono già altri due o tre come me che si scaldano il sedere. Basta uno sguardo, un cenno del capo. Non ci parliamo molto fra noi, forse perché siamo uno per l’altro uno specchio che non si guarda volentieri. Osservo i giocatori che fanno le puntate e poi seguono sui monitor le gare e i risultati, ma ecco che quel matto di Mazza comincia a sbraitare e a inveire non si sa contro chi. In due minuti arriva il gestore che lo spinge verso l’uscita e noi con lui. Fuori, fuori! Per oggi qui avete finito!

L’aria fredda mi brucia nei bronchi e ricordo che stanotte ho tossito a lungo. Meglio stare al caldo ancora un po’. La stazione è tranquilla. Unico segno natalizio l’abete messo a un lato dell’atrio, con sotto dei finti pacchi dono. Mi concedo un caffè, anche perché qui lo fanno buono. Poi mi metto a guardare i libri sul banco dell’edicola. Quando facevo il bidello ne avevo sempre per le mani. Me li lasciavano i ragazzi per le fotocopie e nei momenti di pausa leggevo pagine di storia, geografia, scienze. Così ho imparato tante cose, io che avevo solo la terza media.

Hanno acceso i lampioni e controluce si vedono i primi puntini luminosi. È un nevischio sottile che volteggia a mezz’aria e sembra non arrivare nemmeno a terra, ma quando ho percorso un paio di isolati diventa neve vera. Arrivo alla piazza che è quasi buio e i festoni appesi ai fili mandano lampi d’oro e d’argento che abbagliano. La neve imbianca i tetti delle casette di legno che vendono caldarroste e vin brulé, e ti aspetteresti di vedere spuntare una slitta, come dentro una favola in cui la vita è un gioco, e anche il freddo ha qualcosa di dolce e commovente. A me però la commozione può giocare brutti scherzi. Come una sbronza triste, mi fa venire su il magone del passato. Quando mi hanno detto che Caterina aveva un male incurabile ho smesso di vivere. Restarle a fianco è stato come morire con lei e infatti dopo non me n’è importato più di nulla. Di fare il bidello per tirare uno stipendio a fine mese. Di avere una vera casa. Mi sono lasciato andare e non c’era niente a trattenermi. Bevevo perché era la sola medicina che mi calmasse il dolore. Il dottore per un po’ mi ha aiutato coi certificati, ma poi ho perso il lavoro. Mi sono ritrovato da un giorno all’altro al dormitorio del Comune e a mangiare alla mensa dei frati. Quando mi hanno portato all’ospedale con l’ambulanza in coma etilico e mi hanno detto che c’era mancato poco, ho deciso che volevo continuare a vivere. È stata l’ultima decisione della mia vita e l’ho presa nove inverni fa. Da allora ho imparato a fare a meno di tutto.

Nevica forte adesso, conviene ripararsi e finisco sotto un portico in mezzo ad altra gente. Cerco l’appoggio del muro e mi ritrovo accanto all’entrata di servizio del Grande Magazzino, proprio mentre si affacciano una signora distinta e una giovane commessa.
"Ormai non arriva più", dice la signora con aria inquieta, "dobbiamo trovare qualcun altro". E la commessa: "Ma dove lo scoviamo a quest’ora uno che si veste da Babbo Natale per noi?". Io sono sempre stato un tipo schivo, ma sveglio quando occorre, specie se capisco che si può guadagnare qualcosa. Perciò senza stare a pensarci faccio un passo avanti e dico "Se avete bisogno io sono qua". Mi squadrano, curiose e dubbiose, nel riquadro di luce che viene dall’interno. "Lei chi sarebbe?". "Ho fatto per tanti anni il bidello", dico e poi invento: "Una volta mi sono vestito da Babbo Natale anche per i bambini della mia scuola". La signora mi squadra e scuote la testa, poi però si rivolge non meno incerta verso l’interno illuminato e vociante del negozio. Cinque minuti dopo sono su una pedana al centro del reparto giochi, vestito da Babbo Natale dalla testa ai piedi e con tanto di barba finta.

I bambini sono già in fila e si spintonano eccitati. Il primo si fa avanti e con la massima naturalezza viene a sedersi sulle mie ginocchia. Dimostra cinque o sei anni. "Tu non sei lo stesso di ieri", mi dice e faccio segno di no. Poi aggiungo: "Ha preso un grosso raffreddore". È pallido e minuto, ha una vena azzurra su un lato della fronte. "Non vuoi sapere che regalo voglio quest’anno?", domanda, e mi riscuoto, ricordo le istruzioni che mi ha dato la signora. Il bambino dice il desiderio, poi io gli do il cioccolatino e infine posiamo insieme per la foto con Babbo Natale. Tutto fila liscio e arriva il secondo, con cui sono già più sicuro.
"Sei stato bravo quest’anno? Cosa vuoi come regalo?". Questo è grassottello e molto corrucciato. Come regalo vorrebbe un cane ma i suoi genitori gli hanno detto che io non posso portare animali in dono. Abbasso la voce e gli dico che non è vero. Un cane è un bellissimo regalo. Vedo che il suo viso si illumina e fa un bel sorriso quando il flash della foto ci colpisce. Poi è la volta di una bambina molto piccola, che mi tende le braccia perché me la tiri sulle ginocchia, e non pesa niente. Mi dice il suo desiderio con una vocina impercettibile e ci metto un po’ a capire: vuole una bambola parlante che le faccia compagnia, perché è stufa di giocare sempre da sola.

I piccoli in fila rumoreggiano, ne richiamano altri che arrivano rimorchiando i genitori, e li accontento tutti. Mi lascio tirare la barba e dare calci alle ginocchia. Una vuole che la maestra antipatica prenda l’influenza e rimanga a casa per un mese. Un altro che il fratellino di notte non faccia più le puzze. Un altro ancora che il fidanzato della mamma lo porti di nuovo a sciare. Continuo a impegnarmi al massimo e sorrido nelle foto. Mi piace pensare che finiranno in un album e che qualcuno fra chissà quanti anni vedrà anche me. Finalmente la fila si esaurisce, i clienti sono rari e frettolosi, la voce di un altoparlante dice che fra pochi minuti si chiude e capisco di aver finito anch’io. Sono stanco e accaldato, ma tutti quei desideri sussurrati mi hanno messo addosso una specie di ebbrezza.

La signora sembra soddisfatta mentre mi mette in mano le banconote e per me sono tanti soldi, ma c’è qualcosa di più importante quando esco fuori. Sono entrato anch’io nella favola, anche se dalla porta di servizio di un negozio. La neve cade a fiocchi larghi e lenti. Ha già imbiancato ogni cosa, cancellato le impronte, mandato a casa tutti. Mi sento bene e mi piacerebbe poterlo dire a qualcuno. Sono ancora vivo! dico ad alta voce, alla piazza e alla neve, alla notte di Natale che arriva.


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