venerdì 22 giugno 2012
​L'arcivescovo Loris Capovilla, ex segretario di Giovanni XXIII, ricorda come maturò l'idea del Vaticano II.
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L’intervista a monsignor Capovilla chiude la serie dedicata agli ultimi testimoni del Vaticano II. Le puntate precedenti sono uscite: 1.Cottier (25 aprile), 2. Etchegaray (3 maggio), 3.Mejia (9 maggio), 4.Poupard (22 maggio), 5. Coppa (30 maggio), 6. Vanhoye (12 giugno), 7. Tucci (20 giugno). Queste e altre nove interviste (ai cardinali Martini, Silvestrini e Canestri, al vescovo Bettazzi, ai giornalisti Masina, La Valle e Benny Lai, al gesuita Molinari e al saveriano Mondin), verranno riunite da Filippo Rizzi nel volume «Quelli che fecero il Concilio» in uscita in autunno per le Dehoniane di Bologna.

Porta sulle sue spalle i ricordi più intimi del suo Papa Giovanni XXIII il segretario di Angelo Giuseppe Roncalli, l’arcivescovo Loris Francesco Capovilla, classe 1915. Nella abitazione a Sotto il Monte a Ca’ Maitino nel Bergamasco ogni oggetto, cimelio, arredo sacro rievoca e parla della biografia del Pontefice del Concilio, della Pacem in terris, del libro testamento Il giornale dell’anima ma soprattutto è ancora intatta la memoria del custode della vita pubblica e privata del "Papa buono": «Divenni suo segretario quasi per caso – rievoca divertito monsignor Capovilla –. Appena nominato patriarca di Venezia cercava un  segretario e la scelta sulla mia persona nacque da una casuale consultazione con il vicario capitolare della diocesi lagunare monsignor Erminio Macacek. Flemmatica fu infatti la risposta di quest’ultimo riguardo a questo parere: “Eminenza è un buon prete, bravo, non gode però di buona salute e avrà vita breve”. E subito il cardinale Roncalli commentò con quel suo fare che conquistava immediatamente: “Beh, se non ha salute verrà con me e morirà con me”. E invece sono qui a parlarne oggi, e ho superato gli anni di vita dello stesso Papa Giovanni».Assieme al cardinale Domenico Tardini Capovilla fu una delle prime persone a venire a conoscenza del proposito di indire da parte di Roncalli un Concilio ecumenico a quasi cento anni dal primo. Una confidenza che fu accolta con trepidazione e sgomento dall’allora giovane sacerdote veneziano: «Quando il Papa me ne parlò per la prima volta, era Pontefice da appena cinque giorni. Fece un cenno vago, disse: “Sul mio tavolo si riversano tanti problemi, interrogativi e preoccupazioni. Ci vorrebbe qualcosa di singolare e di nuovo, non solo un Anno Santo. Nel Codice di Diritto canonico, allora da poco promulgato, c’è un capitolo chiamato "De Concilio oecumenico”.  Più avanti, me ne ha parlato un’altra volta, e io sono sempre rimasto in silenzio. È venuto poi quella sera del 21 dicembre del 1958, me ne riparlò e mi disse: “Il tuo superiore ti ha accennato a quest’eventualità, che ritengo essere ispirazione del Signore? Tu non hai detto neanche una parola...”. E toccandomi il braccio, mi disse: “Il fatto è che tu ragioni un po’ umanamente, come un impresario che fa un progetto e chiama l’architetto, i consulenti, che si intende con le banche. Per noi invece è già un gran dono di Dio accettare una buona ispirazione e parlarne. Non pretendo di arrivare a celebrarlo, a me basta annunciarlo”».Una convinzione quella di un Concilio, è la testimonianza di Capovilla, che maturò pian piano nel cuore e nella mente del "Papa buono": «Rammento che si recò nella stanza dove era morto il suo predecessore Pio XII a Castel Gandolfo per pregare e ricevere la giusta ispirazione a questa importante decisione. Ricordo che le parole rassicuranti di Tardini all’idea di un Concilio (“Dio ama le cose grandi e belle”) aiutarono e confermarono a superare le prime titubanze e resistenze di papa Giovanni sul proposito di radunare a Roma un’assise ecumenica di quelle proporzioni».Ci fu una trasformazione del progetto conciliare dal suo annuncio alla sua apertura?«Nella sostanza mi pare di poter dire di no, tanto è vero che il 25 gennaio 1959 Papa Giovanni indicò le tre parole chiave fede, amore, santità. Il Pontefice era soprattutto mosso da questa intuizione per il Concilio e fatta di due parole: “fedeltà e rinnovamento”. Comprendeva più di altri che se la Chiesa fosse solo fedeltà sarebbe un museo fatto di memoria ma anche di polvere e quindi era necessario un rinnovamento, prima di tutto liturgico; un rinnovamento che voleva dire arrivare ai lontani ma anche riscoprire, come direbbe Charles Péguy, le sorgenti più autentiche della nostra fede; un attingere alla sorgente, nel senso letterale della parola».Quali istantanee porta con sé dell’annuncio di quel 25 gennaio 1959…«Ricordo come fosse ieri il Papa silenzioso e raccolto che si avvia verso San Paolo fuori le Mura. Alcuni cardinali sapevano che finita la Messa egli avrebbe presieduto un Concistoro nell’aula capitolare dell’Abbazia benedettina. E lì pronunciare quelle parole divenute indelebili: “Venerati fratelli, pronunzio innanzi a voi, certo tremando un poco di emozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito il nome e la proposta della duplice celebrazione di un Sinodo diocesano per l’Urbe e di un Concilio ecumenico per la Chiesa universale”. Per un riguardo ai cardinali e ai vescovi residenti fuori Roma, la pubblicazione del testo verrà ritardata, e non per apportarvi, come insinuarono alcuni, modificazioni e aggiunte».Si narra che fu proprio Papa Roncalli a indicare nella commissione teologica preparatoria del Concilio i nomi di Henri de Lubac e di Yves Marie Congar. Un gesto che fu letto come un atto di riabilitazione da molti media francesi…«Da una parte fu certamente così una riabilitazione dopo tanti anni di censura e di esilio dalle cattedre universitarie dei due grandi esponenti del rinnovamento teologico d’Oltralpe. Ma non solo questo. Roncalli era un uomo che ascoltava i suoi collaboratori e poi era stato otto anni in Francia come nunzio apostolico. La scelta di volere questi due nomi così importanti ma anche simbolici, visto il giudizio non favorevole che pendeva su di loro del Sant’Uffizio, dipese anche dalla buon considerazione che nutrivano l’allora arcivescovo di Parigi Maurice Feltin ma anche quello del belga arcivescovo di Bruxelles, Leo Joseph Suenens, (soprattutto dopo la sua creazione a cardinale nel dicembre del 1961) nei confronti del gesuita e domenicano francesi. Fu dunque una riabilitazione ma anche una scelta molto ponderata».Come visse Giovanni XXIII l’apertura del Concilio l’11 ottobre 1962?«Visse quell’evento con una grande fiducia in Dio. Era severo e trepidante. “Tantum aurora est”, siamo all’ aurora. Dirà all’apertura del Concilio. Siamo agli inizi dell’evangelizzazione; abbiamo ancora i millenni davanti: comprendeva che la sua azione rappresentava una piccola porzione rispetto ai disegni di Dio».Quella sera stessa di quel giovedì di cinquant’anni fa il Papa pronunciò, inaspettatamente, il discorso della luna. E’ vero che Lei lo spinse ad affacciarsi?«No, papa Giovanni non aveva bisogno di essere spinto, seguiva il suo intuito e ispirazione. Venendo a quel giorno, ricordo che il programma era stato molto intenso. La giornata doveva concludersi con una fiaccolata dell’Azione cattolica in piazza San Pietro ed egli avrebbe dovuto affacciarsi per benedire la folla, ma alla fine si era dimenticato di aver lui stesso chiesto al cardinale Amleto Cicognani di rappresentarlo. Usai un piccolo espediente, una “gherminella”. Conoscendo la sua proverbiale curiosità, gli dissi: “Santità non si affacci, non parli, ma guardi attraverso le fessure delle persiane che spettacolo, piazza san Pietro è piena di fiaccole, sembra incendiata!”. Infatti andò alla finestra, dicendomi poco dopo: “Mettimi la stola”. E avviò quella conversazione con la folla del colonnato intenta a guardare la luna con lui…».Il giugno del 1963 segna il passaggio ideale, nel bel mezzo del Concilio, di consegne tra Papa Giovanni e Paolo VI.Cosa le torna in mente di quei giorni...«Certamente l’agonia di papa Giovanni ma anche la sua serenità nell’affidarsi a sorella morte: era comunque convinto che il Concilio sarebbe andato avanti. Ricordo la stima che Papa Roncalli aveva di Montini. Sul letto di morte espresse un auspicio: “Il mio successore potrebbe essere Montini”. Paolo VI è stato eletto Papa a mezzogiorno del 21 giugno 1963. Quel che più mi ha impressionato è che mi abbia confidato di aver accettato il pontificato per continuare l’opera iniziata da papa Giovanni».

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