venerdì 23 dicembre 2022
L'editore e giornalista, costretto a letto da una malattia terminale, parla della vicinanza di Dio, dell'incontro con san Escrivá. E dell'impegno intellettuale: «Tra fede e cultura non c'è dissidio»
Cesare Cavalleri nel suo studio

Cesare Cavalleri nel suo studio - Marta D’Avenia/Ares

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È sempre lui. Anche adesso che i suoi giorni si sono fatti improvvisamente più brevi. Pur molto debole, Cesare Cavalleri ha il consueto sguardo penetrante, non rinuncia alla battuta appuntita, sceglie le parole con cura da orafo, prende fiato soppesando i concetti. Nel letto della casa milanese dove attraversa quel tempo residuo che i medici hanno misurato in poche settimane (ne ha messo a parte i suoi lettori il 23 novembre in un dialogo toccante col direttore Marco Tarquinio) Cavalleri, alla guida da decenni di “Studi Cattolici” e delle Edizioni Ares, riceve comunque i suoi collaboratori per le scelte editoriali, e gli amici che desiderano salutarlo. La voce essenziale, le frasi brevi, ma nella crescente fragilità c’è sempre il desiderio di esprimere la sua originale opinione. E con “Avvenire” di confidare qualcosa di piu personale, ora che il velo che dà sulla vita eterna si è fatto trasparente.

Come vive questo Natale?

È una situazione singolare passare tutte le feste coricato. Non ho dolori specifici, ma una grande spossatezza, segno della malattia. Però Natale è sempre Natale.

Quali sono i suoi pensieri in questi giorni?

Sto pensando agli angeli, naturalmente non me ne faccio un’immagine antropomorfa, non penso a esseri con le ali. Ma in me aumenta la curiosità su cosa sarà dopo. Questo è bello.

Che idea si è fatto su “cosa sarà dopo”?

Non ho nessuna idea precisa, posso solo considerare la gloria di Dio e la sua misericordia. Siamo nelle sue mani, perché il Signore ci vuole bene, da sempre. E quindi non c’è da temere nulla, perché ha in serbo per noi le cose più belle che si possano desiderare.

Vale anche nella malattia?

Dio sa trarre il bene anche dal male, non è facilissimo crederlo, ma è così.

La sua preghiera in questo periodo su cosa si concentra?

Sui ricordi passati. Non devo e non posso fare progetti, sarebbe ridicolo. Ma quando si dice che siamo nelle mani di Dio è una cosa profondamente vera, e quindi siamo tranquilli. Io sono tranquillo.

Nella vita si è sempre sentito nelle mani di Dio?

Direi di sì, ho sempre cercato di stare vicino al Signore, anche con la lotta ascetica. La vicinanza di Dio non l’ho mai messa in dubbio. È questo che mi lascia tranquillo.

C’è qualche ricordo che le affiora alla memoria?

I tanti incontri che hanno inciso nella mia vita, tra tutti quello con san Josemaría Escrivá, la garanzia della bontà e della pertinenza dell’ascetica dell’Opus Dei, con la santificazione della vita quotidiana. Di lui ricordo in particolare la straordinaria capacità di voler bene, di far sentire che ti voleva bene. Da Escrivá ho imparato praticamente tutto.

Lei ha dedicato la vita a Dio, negli altri e attraverso la cultura. Cos’ha ricevuto?

Ho dato la mia vita, sì, e cercando di star vicino al Signore ho ricevuto questa serenità, la sicurezza che sperimento. Il sentirmi in buone mani.

Lei entrò nell’Opus Dei quando aveva 22 anni, come membro numerario, scegliendo cioè il celibato apostolico. Non ha mai avuto ripensamenti?

Non ho mai messo in discussione la mia via, anche per un senso del dovere molto acceso. Ho sempre cercato di fare quello che dovevo, con molta semplicità. Non ho mai avuto la sensazione di fare qualcosa di straordinario. La mia vita si è impostata su questo: stare vicino alle persone, volergli bene, prodigarmi per loro. Il beato Álvaro del Portillo (primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei, ndr) a chi gli chiedeva come si fa a fare apostolato rispondeva che è molto semplice: si tratta di voler bene alle persone, portarle nel cuore. Ci vuole una grande disponibilità, vedere il Signore negli altri, cercando di aiutarli nel loro cammino personale. E questo è molto bello. Abbiamo la responsabilità di essere testimoni per portare gli altri a incontrare Dio: se poi questo accade, è come veder nascere un bambino. È molto emozionante.

Che ruolo ha avuto la fede per un intellettuale come lei?

Non c’è dissidio tra cultura e fede. La mente è una sola, e se l’intelligenza è impregnata di fede non c’è alcun problema nel rapporto tra di loro: diventano un tutt’uno.

Come vede la Chiesa in questo tempo?

Mi sembra come un po’ sbandata perché circola poco amore, ci si preoccupa di grandi questioni sociali necessarie e sacrosante ma ricordiamo che Gesù ci ha detto di andare in tutto il mondo parlando di lui sino ai confini della terra. Il compito indivisibile del cristiano è amare il prossimo portandolo con la propria testimonianza verso l’incontro con Dio. Tutto sommato, poi, è meno complicato di quello che può sembrare… C’è un cammino da seguire per questo incontro: se si cerca lo si trova, e forse si è già trovato. E quindi lo si può comunicare agli altri.

Lei ha dedicato molto impegno per far conoscere e spiegare il magistero della Chiesa e del Papa. Cosa pensa di papa Francesco?

Ubi Pontifex ibi Ecclesia, non c’è Chiesa senza vicinanza al Papa. Sono sempre con il Papa, chiunque sia. Di Francesco apprezzo soprattutto l’approccio così immediato alle situazioni, una novità nella Chiesa: è la sua caratteristica, che corrisponde al suo carattere e alla sua profonda umiltà e disponibilità.

Lei ha guidato una casa editrice cattolica come le Edizioni Ares per tanti anni. Come immagina il suo futuro?

Continuerà a pubblicare libri, come ha sempre fatto. Il libro, da sant’Agostino in poi, è sempre stato un importante veicolo per la fede. Conta leggere libri, e ovviamente farli. Quest’anno abbiamo pubblicato 60 novità, ho collaboratori bravissimi: porteranno avanti questo progetto. Non ho alcuna preoccupazione. Ho dedicato tutto me stesso anche a “Studi cattolici” (la rivista mensile nata nel 1956, edita da Ares e che Cavalleri dirige ormai da 57 anni, ndr). Altri la porteranno avanti, nella fedeltà alla sua natura: uno strumento di alta divulgazione che fa da raccordo tra le fonti del sapere e il pubblico dei cosiddetti leader d’opinione. È una lettura che deve richiedere un po’ di fatica, perché senza fatica non si fa niente. Come diceva Karl Kraus: bisogna attenersi al difficile.

Su cosa pensa debbano puntare oggi l’editoria e il giornalismo cattolici?

Oggi vanno molto di moda le emozioni, che però non posso essere separate dalla razionalità. La fede stessa non può ridursi a emozione, è inevitabilmente legata alla ragione. Non può esserci distacco: sono inseparabili. Un buon giornalismo, anche cattolico, deve insistere sulla ragione. Dobbiamo aiutare a pensare, ad andare oltre l’emotività.

Lei ha scritto su “Avvenire” sin dalla nascita del quotidiano. Cos’è per lei il nostro giornale?

È una parte importante della mia vita, ho cominciato a scriverci nel 1968 e non ho mai smesso: significa qualcosa, evidentemente. In tutti questi anni mi sono anche divertito, divertirsi scrivendo è importante... “Avvenire” è l’unica voce sicuramente cattolica nel panorama così frastagliato del giornalismo italiano, quindi ha una funzione indispensabile.

Non è che i cattolici stanno perdendo la voglia di leggere?

No, leggono più degli altri. Semmai, per invogliarli a leggere bisogna saper dire sempre cose interessanti. Per esempio, i cattolici hanno il vantaggio di avere terminali in tutto il mondo, una risorsa molto importante di cui nessuno dispone. Possiamo conoscere situazioni, eventi, personaggi che nessun altro è in grado di cogliere come noi.

I social network fanno concorrenza alla lettura di giornali e libri…

Sì, ma in questo aveva ragione Umberto Eco, che diceva che i social servono per commentare mentre per leggere ci vuole comunque la carta. Il giornale esisterà sempre finché ci saranno persone che hanno voglia di capire, di avere un minimo di approfondimento. I social sono i sommari, i libri e i giornali sono i contenuti.

C’è una lettura che reputa imprescindibile?

Un libro veramente indispensabile è stato Cammino, il classico spirituale di san Josemaria. Lo è stato per me, ma credo sia bello e importante per qualunque cristiano. Esprime un’energia così forte che aiuta la conversazione con Dio, e quindi la conversione.

Altre letture decisive per la sua vita?

Tutto il magistero della Chiesa, che è fede incarnata. Se si legge sistematicamente quello che il Papa scrive e dice siamo sicuri di essere sulla buona strada.

E di tutta la sua biblioteca di una vita ci sono libri cui è piu affezionato?

Quelli che ho scritto io, ovviamente… Oltre alle raccolte delle rubriche su “Avvenire”, penso in particolare a uno più personale, Per vivere meglio (conversazione con Jacopo Guerriero, uscito nel 2018 per La Scuola col sottotitolo Cattolicesimo, cultura, editoria, ndr), dove racconto la mia biografia e il mio modo di avvicinarmi alla fede, alle persone e alla cultura.

Un suo messaggio per i lettori di “Avvenire”?

Leggere, leggere, leggere, non stancarsi di leggere. Scegliere letture che nutrono: se si cercano bene si trovano. In ogni libro c’è qualcosa di utile, quella frase che ti colpisce, che porta sulle vie del bene.

Il libro per eccellenza per un cristiano è il Vangelo: c’è un passo che le è più caro?

Amo molto il Vangelo di Luca, apparentemente il più discorsivo, ma di una profondità incredibile. Nelle sue pagine ti si presenta Gesù come era. La pagina che ho sempre letto con più partecipazione è la vocazione degli apostoli, persone che lasciano tutto non per un’idea ma per l’incontro con una persona. E questo è meraviglioso.

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