martedì 11 dicembre 2018
Per annunciare il Vangelo agli operai aveva scelto di condividere il loro stesso lavoro fino a perdere la vita in uno stabilimento di Anderlecht a causa di un infortunio mortale. Pubblicato il diario
Egied Van Broeckhoven, il gesuita missionario nelle fabbriche
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La mattina del 28 dicembre 1967, in una fabbrica di Anderlecht, un quartiere di Bruxelles, scattava l’allarme per un infortunio mortale sul lavoro. In seguito al cedimento di alcuni pilastri d’appoggio, un operaio - sbalzato violentemente all’indietro contro una lastra - si era spezzato la schiena perdendo subito la vita. Si chiamava Egied Van Broeckhoven, aveva trentaquattro anni, ed era un gesuita che pur definendosi talvolta “prete operaio” non accettava di identificarsi con il modello diffuso.

Lui a scrivere: «Dobbiamo evitare di passare per preti operai, senza però criticare quelli che lo sono e senza dissociarci da essi. Noi non siamo preti specializzati nella soluzione dei problemi del mondo operaio, siamo preti in mezzo alle gente, che vivono come tutti (condizioni di lavoro, alloggio) e cercano di creare una nuova forma di comunità ecclesiale (sia essa autonoma, parrocchiale o di altra natura); in ogni caso centrati sull’Eucaristia, a partire da una preferenza verso tutti coloro che si trovano più lontani dalla Chiesa ufficiale …».

E, ancora Egied , ad annotare sul diario - a proposito dei suoi compagni - quest’altra frase: «Ho compreso e riscoperto che la cosa più importante nella nostra vita è condividere integralmente la loro vita. Non è l’azione sindacale: questo può aggiungersi al resto, ma non è la cosa essenziale». Pronto poi ad osservare - davanti alle resistenze di alcuni confratelli diffidenti nei confronti di questa scelta: «Pecca contro l’amore chi ritiene che l’apostolato intellettuale sia l’apostolato specifico della Compagnia di Gesù. Infatti l’apostolato della Compagnia può essere esercitato anche facendo l’operaio addetto ai lavori stradali, il maestro o l’infermiere. Ciò che esso ha di specifico è di essere mistico: portare Cristo agli uomini cercando, a partire dall’intimità della nostra persona, l’intimità profonda degli altri, e farlo in modo attivo (cioè in un modo che non sia puramente contemplativo)».

Ecco perché fra l’agosto ’65 e il dicembre ’67 il gesuita fiammingo aveva lavorato in quattro fabbriche, sottoponendosi a ritmi sfiancanti, condividendo i pasti con gli operai suoi compagni e le loro famiglie provenienti da differenti contesti culturali e religiosi. Insomma un “apostolato di quartiere”, di “condivisione”, di “incontro”: e, ai suoi occhi, dalla “portata mistica”.

Detto con le sue parole: «Ogni incontro ha un valore mistico perché nel contatto di due persone è già presente l’abbozzo dell’incontro del Cielo; già da lungo tempo ciò era diventato per me evidente nell’amicizia, ora mi appare chiaro per ogni incontro». La missione era per Egied: «Un anticipo delle relazioni che gli uomini avranno fra di loro in cielo: amare gli altri verso Dio e Dio verso gli altri». Con questa espressione difficile da tradurre, amare verso, che torna continuamente nel suo Diario, Egied descrive l’amicizia e l’essenza del proprio impegno. «Sbaglia chi pensa che io vada verso gli emarginati scristianizzati per compiere un lavoro da pioniere, per accrescere la reputazione della Compagnia di Gesù, per scrivere dei libri: ci vado solamente per fare il lavoro del Padre, per amarli, per radunarli presso il Padre nel Figlio mediante la forza dello Spirito. È l’unica ragione».

Nel diario di Van Broeckhoven, ora in libreria in forma antologica a cura di Emanuele Colombo con il titolo L’amicizia, sottotitolo “Diario di un gesuita in fabbrica 1958-1967” (pagine 172, euro 14, Marietti) è davvero ricca la selezione di brani tratti dai ventisei quaderni scritti in olandese lasciati da Egied, in gran parte inediti, ordinati cronologicamente e corredati di note.

Al centro scopriamo pensieri, desideri, illuminazioni, fatti accaduti: «le mie esperienze di Dio» come lui le chiamava. E, insieme, note personali, non concepite per essere diffuse («Il problema della vita di preghiera non è: come pregare? Quando pregare? Ma piuttosto: in che modo Dio mi raggiunge? Quando mi raggiunge? »), come pure resoconti di momenti mistici («Lungo la strada il Signore mi ha fatto sentire che mi accompagnava nella mia visita al padre, affinché tutto trovi la sua soluzione nell’Amore. Cristo mi viene incontro in maniera invadente, e nello stesso tempo semplice. Verrò con te fino al termine del cammino: il Signore è con me su questa strada»).

In altre pagine ecco poi le letture che hanno accompagnato Egied, ad esempio a partire dagli scritti di Charles de Foucauld: sulle orme di un Dio che vuole stare con coloro che ama, sperimentando nei suoi incontri con le persone, la presenza una e trina di Dio nel mondo. Qualcosa che ha ricordato ai teologi l’ermeneutica “identitaria” della Trinità immanente (chi è Dio all’interno di Dio come tale) ed “economica” (come agisce Dio nella creazione) date da Karl Rahner : dove l’incarnazione dettata dall’amore, che si esplicita nella fatica di muoversi verso un mondo marginalizzato - come ha scritto Jacques Haers- «coincide con l’esperienza della Trinità nella sua opera di amore».

Dal diario. «Dio si fa conoscere nei rapporti di vera amicizia»

Alcuni stralci diaristici di Egied Van Broeckhoven poco più che ventenne, ai tempi del noviziato nella Compagnia di Gesù. Nelle sue riflessioni di questo periodo, leit motiv è il desiderio ardente di «vedere Dio», di «contemplare il Suo volto», con continue citazioni dai Salmi, ma pure come possiamo leggere - la convinzione che Dio si fa conoscere nei rapporti di vera amicizia.

4 marzo 1959 L’amico è come una casa di diamante: al suo interno brilla una luce sfolgorante e di grande bellezza. Ma non è possibile entrare senza infrangere la parete esterna: operazione dolorosa, anche per chi la infrange, poiché questi ferisce anche se stesso. Ma, infranta la prima parete, la luce interna brilla di un rosso ardente con nuovo fulgore. Così egli infrangerà successivamente molte pareti, procurandosi ferite ancor più profonde. Non farà però come chi rompe cinicamente un bel vaso e poi si allontana come se la cosa non lo riguardasse. Le sue ferite diventano sempre più profonde, fino al momento in cui si trova davanti all’ultima parete: attraverso di essa egli intravvede già la luce, e gli sembra che se la infrange, la luce stessa si spegnerà. Eppure occorre che infranga anche quest’ultima parete: solamente a questo prezzo potrà trovare l’intimità più profonda dell’amico, la Trinità divina. Il mio amico è come una dolce aurora dell’eterno amore di Dio. In questo consisterà tutta la beatitudine del cielo.

16 novembre 1959 Quello che mi ha insegnato Charles de Foucauld è che una delle principali caratteristiche dell’amore cristiano (e dell’amore di Cristo stesso) è donarsi incondizionatamente in un’apertura totale agli altri, anche se si è consapevoli che gli altri penetreranno in modo maldestro e violento nell’intimità che offriamo loro; e l’amore cristiano si fa carico delle sofferenze che ne derivano e le offre come sofferenza redentrice. È il senso profondo delle sofferenze di Cristo, e il modo in cui ha voluto farsene carico. Bisogna comunque avere un amore così profondo da non poter più essere feriti in modo impuro (concupiscenza, ecc.); l’amore più profondo realizza questo grande miracolo; vuole essere ferito solo nella sua intimità più profonda. [...] Così, i momenti più tragici delle sofferenze di Gesù sono quelli in cui egli si espone a essere ferito nell’intimità più profonda: non quando resta indifeso di fronte ai soldati (questo non lo tocca nella sua intimità: potrebbe mandare degli angeli, ecc.), ma quando invece diventa vulnerabile nella propria Intimità con il Padre (perché mi hai abbandonato...? Padre, se è possibile...). È in questa intimità che egli ha sofferto, è questa l’intimità che egli ha voluto rivelarci (Gv 17, 23-26)

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