IMAGOECONOMICA
In un libro di qualche anno fa uscito per Utet e intitolato Un re non muore. Corso letterario di scacchi, l’autore, Ivano Porpora, scriveva che gli scacchi sono la vita. Questa è una definizione calzante per raccontare la storia di Tunde Onakoya, scacchista e attivista nigeriano che si batte per sostenere l’istruzione dei bambini africani nelle comunità povere, utilizzando gli scacchi come strumento pedagogico. L’abbiamo intervistato a partire dalla sua storia di vita, indissolubilmente legata alla storia scacchistica. Ci ha parlato di un viaggio, iniziato 20 anni fa: «Sono cresciuto a Lagos, in Nigeria, nella baraccopoli Ikorodu. I miei genitori non erano istruiti. A 10 anni ho abbandonato la scuola perché non c’erano i soldi per pagare la retta. In quegli anni stavo a casa senza fare nulla. Cercavo qualche lavoretto umile per mantenere la famiglia. Un giorno entrai nel negozio di un barbiere e tirò fuori una scacchiera. Era la prima volta che ne vedevo una. Fu amore a prima vista. Cominciai a fargli domande sui nomi dei pezzi, su cosa fosse questo gioco, e iniziò il mio viaggio, imparai le regole e cambiai traiettoria alla mia vita. Questo mi permise di tornare a scuola con una borsa di studio. Divenni in poco tempo il migliore della scuola e fu magico, perché da dove vengo non sono in molti a farcela. Tanti si danno alla droga, alla criminalità».
Cosa hanno fatto quindi gli scacchi per lei?
«Mi hanno dato un profondo senso di identità, mi hanno reso più ambizioso e mi hanno fatto capire che c’era un posto per me nel mondo. Mi hanno dato la possibilità di entrare in un mondo più grande dei confini che conoscevo».
È così è nata Chess in Slums Africa, organizzazione senza scopo di lucro per dare un’opportunità ai bambini delle comunità svantaggiate attraverso l’uso degli scacchi.
«Era il 2018, avevo 23 anni e stavo pensando di lasciare il Paese, perché le cose erano difficili e la sfida di giocare a scacchi a livello professionale in Africa è che non si può essere un professionista a tempo pieno, perché ci sono pochi tornei e pochi incentivi. Per sfondare avrei dovuto viaggiare in Europa e competere contro alcuni dei migliori al mondo. Ma non ne avevo la possibilità, non c’erano soldi. All’epoca suonavo il pianoforte in chiesa, e dopo passavo il tempo in una comunità. Era come un ghetto, non lontano da dove ero cresciuto, con tanti bambini. Durante il giorno fumavano, giravano con brutte persone, così mi sono detto: dovrebbero andare a scuola. Purtroppo invece erano vittime della povertà in cui erano nati. E non riuscivo a smettere di pensarci, perché mi rivedevo. Lì ho pensato all’unico altro copione che la vita mi aveva messo a disposizione: gli scacchi. Ho iniziato portando un paio di scacchiere. Ho insegnato loro a muovere i pezzi e ho detto loro che avevano la possibilità di scegliere, che c’era un’alterativa. Alla fine è diventato un movimento e da sette anni a questa parte abbiamo avuto un impatto sulla vita di oltre 10mila bambini. Abbiamo raggiunto oltre 30 Paesi in tutta l’Africa. Crediamo che tutti i bambini abbiano un potenziale e che gli scacchi possano diventare il catalizzatore per aiutarli a scoprirlo».
«Proprio come il pedone, spesso considerato il pezzo più debole degli scacchi, può essere promosso a regina, diventando il pezzo più forte, noi crediamo che ogni bambino possa essere elevato dalla sua posizione svantaggiata e debole»: è la sintesi del vostro approccio...
«È il più grande miracolo degli scacchi. È una filosofia per il nostro mondo: non trascuriamo o sminuiamo le persone a causa del loro background. Le persone non devono essere giudicate per il loro passato o la loro provenienza. Dovremmo sempre accogliere le persone in base alle capacità, in base a ciò che possono diventare».
Cosa pensa della serie televisiva La regina degli scacchi? Ha dato un impulso positivo?
«Ha dimostrato che gli scacchi non sono solo una vecchia e noiosa attività cerebrale, ma possono essere accessibili a tutti, indipendentemente dalla provenienza, dal ceto. E credo che questo sia il bello: gli scacchi sono per tutti e ci collegano tutti, hanno un linguaggio universale».
Qual è la lezione di vita più importante che ha ricevuto e che ha dato con gli scacchi?
«Quella che ho ricevuto è il potere della concentrazione. Il problema degli scacchi è che sono un gioco matematicamente infinito. Dopo le prime quattro mosse il numero di varianti è superiore al numero di atomi nell’universo. Tutte queste opzioni e una, solo una, mossa possibile alla volta. Questo insegna a scegliere ciò che è veramente importante. È simile a ciò che insegno ai bambini: quando vedi un’opportunità, coglila, ma quando vedi una buona mossa, cercane una migliore, perché a volte la mossa che sembra più ovvia non è quella giusta. E questo vale anche nella vita».
Si sta studiando che gli scacchi possono favorire l’inclusione sociale e promuovere un approccio terapeutico contro le dipendenze. La sua esperienza cosa dice a riguardo?
«Gli scacchi rafforzano la fiducia e migliorano l’interazione sociale. In alcuni casi abbiamo riscontrato anche un aumento del rendimento scolastico. Per quanto riguarda le dipendenze abbiamo avuto un progetto con bambini senza fissa dimora con dipendenze. Abbiamo visto che il gioco è diventato per loro un nuovo canale per esprimere la rabbia, le emozioni espresse negativamente. Insegnando loro gli scacchi, si offre un modo più significativo per esprimere le emozioni in modo più produttivo. Inoltre gli scacchi sono utili anche nel mantenere attivo il cervello per le persone con Alzheimer e nelle carceri possono essere usati come strumento per il reinserimento sociale».
In Italia stanno introducendo gli scacchi nelle scuole, nelle biblioteche, nei parchi. Cosa ne pensa?
«Credo che dovrebbero essere resi obbligatori in tutte le scuole del mondo. Il mondo sta cambiando, l’istruzione sta cambiando. Il tessuto stesso della nostra società sta cambiando. E credo che gli scacchi possano insegnare moltissimo, soprattutto il pensiero critico».