sabato 16 marzo 2024
Il 75enne compositore e polistrumentista Tito Rinesi da ex chitarrista di Venditti all’ultimo atto di una trilogia in turco antico: «Il musicista è un ponte per il dialogo, al di là di ogni divisione»
Il musicista e compositore Tito Rinesi, a sinistra

Il musicista e compositore Tito Rinesi, a sinistra

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«Sufi soffocati, mullah immobili / nel silenzio delle sparatorie». Cantava così Franco Battiato nel finale di Clamori. Era l’album L’arca di Noè del 1982. Ed era la prima volta del sufismo in una canzone, mentre La Voce del Padrone si era appena levata con ben altri clamori. Ma se Battiato, pur avendo sperimentato a dismisura sonorità tra Oriente e Occidente, di sufismo aveva soltanto parlato, unico italiano a cantarlo per davvero è Tito Rinesi, 75enne musicista romano, che dall’universale e spirituale cantautore siciliano ha anche ricevuto una sorta di ideale benedizione.

«Era il 2008 quando realizzai un album intitolato Meetings con la presenza di strumenti etnici suonati dai musicisti dell’orchestra di Roma, formata da solisti dell’Opera di Roma e dell’Accademia di Santa Cecilia - racconta Rinesi -. Il booklet di quel disco recava la presentazione di Battiato che elogiò le melodie e gli arrangiamenti, ma lamentò che ci fosse un solo brano cantato. Si trattava di Resurrexi, un testo della liturgia bizantina che mi aveva molto toccato e che io misi in musica con l’intento di conciliare mondi molto diversi utilizzando l’orchestra classica, una melodia presa da una scala del sistema indiano classico e un modo di cantare quasi gregoriano o bizantino. Con quel benevolo rimprovero Battiato mi spinse a tornare a cantare. Per vent’anni infatti mi ero dedicato solamente alla musica strumentale. Dovevo pur guadagnare per vivere e avevo così composto una grande quantità di colonne sonore per la televisione».

Niente di stridente con la sua vocazione “alta”, visto che alcuni dei programmi Rai per cui aveva composto le musiche tra il 1995 e il 2015 sono stati Geo & Geo, Ulisse, Gaia, Linea Blu, Sereno Variabile, Mixer, Turisti per caso, Doc 3, ecc. E se dal 1993 al 2012 ha pubblicato cinque album caratterizzati fortemente dalle sonorità di strumenti etnici (bouzouki e saz in particolare), da Il tempo è circolare a Lux Oriens, da Mare Nostrum a Verso Levante al già citato Meetings, dopo avere studiato e praticato il canto dell’India del Nord per quasi 20 anni, dal 2013 in poi si è dedicato ad approfondire la tradizione musicale Sufi, in particolare quella legata alla Turchia e all’impero ottomano. E’ dalla ricerca alle radici di questo immenso repertorio, che spazia dal 1200 al 1900, che è nato il progetto di registrare e di pubblicare una trilogia di canti Sufi in lingua originale turca antica, il cui ultimo atto, Ilahi, ha visto la luce in questi giorni, presente sulle principali piattaforme digitali.

Rinesi, da dove nasce questa speciale vocazione alla ricerca sonora orientata verso tradizioni così lontane dalla nostra nel tempo e nello spazio?

Credo sia in me da sempre. Da piccolo ero incantato dal suono e dalle vibrazioni, stavo ore a pizzicare una corda di chitarra. Poi più corde assieme, coglievo il fascino degli accordi, una sorta di magia: la qualità, la vibrazione, il potere del suono. Poi come molti ragazzi ho imparato a suonare la chitarra e a cantare le canzoni in voga, da Bob Dylan ai Beatles. Amavo cantare e ho anche preso lezioni di canto lirico per un paio d’anni, ma non mi piaceva quell’impostazione forzata. Non era una emissione della voce libera e naturale, così ho guardato sempre più a Oriente.

Però ha suonato anche con Venditti...

Sì, la chitarra acustica in concerto nel ‘72 insieme con Roberto Ciotti alla chitarra elettrica e Maurizio Giammarco al sax. Ho avuto normali esordi musicali. Ho frequentato ance il Folkstudio, facevo musica country e la West coast americana. Sono anche entrato nel gruppo di progressive rock Saintjust, con loro ho inciso nel 1974 un disco per la Emi. Alla voce c’era Jenny Sorrenti, la sorella di Alan.

E verso Oriente quando ci è andato?

Il richiamo della musica etnica e popolare dei vari paesi del mondo l’ho subìto soprattutto a partire da un concerto di Pandit Pran Nath, maestro di Terry Riley e di LaMonte Young, a cui assistetti nel 1972. Così mi sono dedicato a diversi strumenti a plettro come il bouzouki, il saz, il djoura, la chitarra acustica, ma suono anche il pianoforte, l’harmonium, il santur, il daff. Poi ho studiato per oltre vent’anni il canto dei raga e il dhrupad, un’altra antica modalità di canto dell’India. Tutto quello che ho fatto era ai tempi molto pionieristico. Anche adesso sono l’unico italiano che umilmente tenta di portare in Italia la bellezza della tradizione Sufi come cantante. Poi il sufismo è legato in maniera un po’ esotica all’immagine dei Dervisci Tourneur.

Insomma, in direzione ostinata e contraria...

Con questi miei lavori mi rendo conto di essere una sorta di estraneo rispetto al sentire comune ma l’attuale mondo, non solo sonoro, mi spinge a essere ancora più concentrato nella mia ricerca di senso esistenziale, artistico e musicale.

Fino ad arrivare a pubblicare tre dischi di canti Sufi in turco antico.

Ho molto studiato tutto il mondo classico indiano, turco-ottomano e mediorientale. Non posso dire di conoscere il turco o il persiano, ma a orecchio vado molto bene. A conferma, sono stato elogiato spesso da persone di lingua turca o persiana per come canto e pronuncio. Ora, con questo disco concludo una trilogia. Il tre di per sé è un compimento. Ma nessun intento filologico. Solo che nel tempo ho conosciuto testi e melodie Sufi così belle che i dischi alla fine sono diventati tre.

Nella quasi impossibilità di capire i testi, cosa significano i titoli?

Il primo disco, del 2020, si intitola Dargah. E’ il posto dove le confraternite Sufi vivono, anzi vivevano. Quando andò al potere Ataturk, un secolo fa esatto, nel suo tentativo di portare la Turchia verso occidente, lui vietò questa pratica anche se il sufismo continuò un po’ clandestinamente. Dargah indica anche una sorta di mausoleo dove è sepolto un illuminato Sufi nel cammino spirituale. E questo luogo, questo posto diventa una sorta di soglia simbolica di passaggio tra la vita terrena e quella ultraterrena.

L’anno dopo, il secondo disco...

Si intitola Rameshgar che, tradotto lette-ralmente, significa “produttore di gioia” ovvero l’appellativo che fino al settimo e ottavo secolo nel Medioriente pre-islamico si dava ai musicisti, che erano tenuti in grande considerazione proprio perché rappresentavano un ponte tra la terra e il cielo, aprivano un canale verso l’alto attraverso la musica. Ilahi invece, il titolo del disco uscito ora, vuol dire nel contempo canto, divinità e sacro ed è l’equivalente dei nostri inni sacri liturgici. Ma è un concetto generale, perché la musica per fortuna sfugge alle definizioni e alle classificazioni.

Perché si è interessato al sufismo?

Mi interessa l’esistenza del mondo Sufi dal punto di vista ecumenico. In un momento storico in cui pensare all’Islam significa pensare agli estremismi, voglio sottolineare come il mondo Sufi abbia preservato il cuore del senso religioso mediorientale, che non contempla alcuna opposizione con altre culture e altre religioni. Ma, anzi, si nutre di tolleranza.

Guardando fuori dal suo spirituale mondo sonoro, cosa vede?

Vedo e sento un grande vuoto. Riguardo alla musica, noto che è sempre più minacciata dalla banalizzazione, le sue potenzialità sono annientate dalla mortificazione della sua bellezza e ricchezza espressiva. E’ vittima di un abbassamento della qualità in ogni sua forma. Dalle melodie che non esistono quasi più alla mancanza di ricerca e originalità, con un deprimente appiattimento sonoro. Ascoltare musica attraverso il telefonino non è vero ascolto venendo meno una sufficiente percezione delle caratteristiche vibratorie e di risoluzione dei vari suoni. Se ne consuma tanta, ma il suo autentico potenziale oggi è quasi sconosciuto.

Al musicista che compito resta?

Credo che il vero musicista debba essere un ponte e un punto di dialogo. Ancor più in un momento storico come questo in cui sta esplodendo sempre più la contrapposizione. Non si arriverà mai a nessuna pacificazione a livello planetario se non si parte da una pacificazione personale di ciascuno. Va ripensata l’educazione umana alla radice, ci si deve nutrire di tolleranza e di amore per l’altro, a partire da se stessi. La musica in ciò ha una essenziale funzione. E noi musicisti cerchiamo di mettere dei semi. C’era un famoso suonatore indiano di shehnai, una sorta di oboe, Ismail Khan, che si chiedeva come sarebbe bello se il mondo fosse retto da musicisti anziché da politici. Lo credo anch’io, le cose funzionerebbero forse in un altro modo. Si imporrebbe il principio della armonizzazione delle diverse istanze sociali. Il concetto di comunità come orchestrazione, del tenere tutto insieme dando il giusto spazio a ogni singola voce.

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