venerdì 13 dicembre 2019
Le rovine del monastero in Slovenia comunicano la forza di un’esperienza radicale: la soglia della prova, dove saremo rivelati per ciò che siamo stati. Eppure, qui tutto parla di speranza
Veduta della Certosa di Seitz

Veduta della Certosa di Seitz - Raul Gabriel

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La Slovenia è un luogo giovane come Stato indipendente. Eppure nasconde tesori di una storia antica, di grande forza e capacità evocativa. Uno di questi è certamente la certosa di Seitz. Il termine nascondere non è a caso. Per trovare la Certosa di Seitz (Žice) è necessario addentrarsi nella Bassa Stiria attraversando un avvicendarsi di colline con l’aspetto di rilievi aspri e impervi che determinano altrettanti avvallamenti, ciascuno confinato come un universo a sé stante. Una volta giunti alla posizione indicata dal gps, la prolusione è la Gostilna Gastuce, la locanda più antica della Slovenia dove si paga l’ingresso per la Certosa. Probabilmente era luogo di sosta e ristoro per viandanti e pellegrini nel loro percorso in questo luogo remoto. La Certosa di Seitz è in parte rovina, ma ciò che resta trasmette sensazioni forti. La chiesa centrale di San Giovanni Battista: gotica, parla una lingua simile ai monti circostanti, dura, adatta a raccontare di chi ha fondato il primo insediamento certosino in Europa dopo Francia e Italia. Pioniere spirituale senza orpelli.

Le pietre della Certosa di Seitz, le finestre gotiche che guardano verso l’indefinito a metà strada tra i boschi e il cielo sono un invito all’abbandono. All’abbandono dei riferimenti usuali. È vero che il sacro compie ciò che siamo ma per un mistero insondabile lo compie strappandoci la dimensione di ciò che siamo per come la conosciamo. L’aula principale, ciò che ne resta, ovvero il perimetro completo privo di volte, ha le logiche di Reims e di Rouen in una scala più umana. Eppure, le dimensioni ridotte, la scarnificazione di quasi mille anni di storia, non tolgono nulla all’esperienza di un luogo dove la mistica tocca vertici assoluti. La deprivazione forzata di ogni spunto decorativo porta in primo piano la intenzione prima del luogo. La Certosa di Seitz parla di una ascesi che passa dal sacrificio sempre umile e sempre epico della propria dimensione personale. Entrando qui sono immerso in ciò che si fatica a percepire quasi ovunque nella contemporaneità. Non è questione stilistica. È questione di profondità dell’intenzione. Tutto il sacro contemporaneo cerca di venire a patti con il ragionevole, con il funzionale, con la rarefazione che sconfina nell’anestesia la cui ricerca è spesso anche dichiarata.

Qui alla Certosa di Seitz non puoi dormire. Non puoi bearti di una visione da sacrochic. Non può esserci conforto sufficiente a rendere il sacrificio piacevole. Ma posso immaginare che queste povere mura così potenti e fiere in durezza e povertà possano essere state di ispirazione al sacrificio, per chi in questo luogo è stato decimato dalle scimitarre degli ottomani. Un luogo deve avere la forza di ispirarti per essere chiamato sacro. E se la contemporaneità ha portato all’attenzione le dimensioni più rarefatte del credere penso che spesso fallisca nel trovare un nuovo slancio capace di infondere una energia paragonabile a luoghi come la Certosa di Seitz.

Un’altra esperienza di questa parte della Slovenia mi ha ispirato alcune riflessioni. La chiesetta di Sveti Rok (San Roco) in Šmarje pri Jelšah, posta alla cima di una collina che negli ultimi metri diventa una prova fisica per chi non ha mezzi a motore. Arrivati in cima, l’esterno abbastanza comune rivela l’interno di un barocco molto ricercato ma vissuto, e questo aiuta a togliergli ogni patina di decorativo. Piccolo gioiello di una devozione impreziosita delle campagne che restituisce la dimensione del luogo altro. Curata nei minimi dettagli, con cappelle laterali inglobate nel volume principale articolate come il presbiterio centrale, Sveti Rok è una vera sorpresa. Ma la cosa più interessante è una via Crucis che copre un dislivello di circa un centinaio di metri con pendenze veramente proibitive. Partendo da valle termina vicino alla chiesa con un “calvario”, forse un po’ kitsch ma intenso, che parla di un forte sentimento delle comunità circostanti. Questa Via Crucis è in sé una vera e propria fatica fisica. Per inciso ho avuto l’impressione di una Slovenia attraversata ancora oggi da un magma ribollente di forte identità, costretta a fare i conti con la parziale assimilazione delle interferenze incrociate e inevitabili di tutte le presenze che si trova intorno, caleidoscopio vivace e non sempre comodo delle comunità mitteleuropee. Solo in apparenza ammorbidita da una costellazione di impianti termali e un approccio decisamente favorevole al turismo. L’equilibrio non è facile da trovare e il tema ha fatto da sfondo a innumerevoli tensioni e conflitti nel corso della storia. Certo è che questo coacervo di pulsioni contrastanti ha tenuto viva una durezza sostanziale dei luoghi. Credo che il contatto con la fisicità delle cose, anche nei rapporti con il sacro sia una forma di dichiarazione di esistenza che bypassa ogni altra categoria e riafferma un diritto quasi ancestrale alla identità, pure se trasformata naturalmente da continui travasi culturali, voluti o forzati. Tornando alla Certosa di Seitz e Sveti Rok, i luoghi nella loro diversità parlano esattamente di questa fisicità nel rapporto con il luogo. Cosa che a me sta a cuore e che la contemporanetà rischia di dimenticare per il piacere di teorici molto affini a una laicità spogliata della dimensione del sacro autentica, perlomeno del sacro cristiano.

È ovvio che una Via Crucis interiore può avere lo stesso valore di una Via Crucis in salita. Ma si può dire che drenare il portato di tutte le nostre percezioni corporali in favore di una illusoria decorporeizzazione sia un tradimento sostanziale dello stesso fatto cristiano. La Certosa di Seitz è un luogo mistico e tocca dal mio punto di vista anche vertici archittetonici ed estetici notevoli. Per la chiesetta di Sveti Rok non sono tanto gli esiti estetici a interessarmi quanto l’attitudine, l’amore e l’attaccamento alla fisicità dell’esperienza che in definitiva è la peculiarità della speranza cristiana, senza cui, e lo smarrimento di oggi lo dimostra, la rivelazione non parla più all’uomo, il quale ha tante altre storie sofisticate e anestetizzanti da raccontare. C’è un punto da attraversare dove non si può più bleffare. È il corpo che passa attraverso la strettoia, non una vaga idea di immersione mistico ideologica. Credo non ci sia una scorciatoia al momento in cui il corpo viene strappato dal corpo, la carne strizzata come una oliva nel frantoio, le tenaglie dell’esistenza tirano fuori da ognuno il succo per ciò che è. L’incontro con le pietre della Certosa di Seitz per un momento sembra ti preparino a questo. Come se là dentro il liminare apparisse lieve e naturale, perfino esaltante. Questo muove il cuore, questo parla al mondo, questo è la speranza. In un luogo così duro e ancora per certi versi primordiale le sofisticazioni del linguaggio contemporaneo devono ancora arrivare, e sicuramente porteranno arricchimento. Ma il contatto diretto con la carne dell’esistenza è senza diaframmi e riesce a parlare direttamente alla speranza.

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