mercoledì 23 marzo 2016
Monsieur Hitch
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Se gli fosse andata male perfino con Revenant, Leonardo DiCaprio si sarebbe sempre potuto consolare pensando ad Alfred Hitchcock, che l’Oscar non lo vinse mai. Nemmeno per La finestra sul cortile, nemmeno per Psyco. Era amatissimo dal pubblico, ma proprio per questo continuava a essere tenuto in gran sospetto dalla critica statunitense, che riconosceva le sue qualità di intrattenitore (di classe, non si discute), ma non era propensa ad attribuirgli lo status di maestro. Per quello ci voleva la saggezza dell’Europa, dalla quale il regista era partito nel lontano 1939.  «Qui in America lo chiamate Hitch, da noi in Francia è Monsieur Hitchcock», riassumeva l’amico e ammiratore François Truffaut nel 1980, nel corso di una cerimonia pubblica che precedeva di poche settimane la morte dell’autore di Notorius e di tanti altri capolavori. Truffaut era l’uomo giusto per rivendicare quel capovolgimento di prospettiva: cresciuto alla scuola di André Bazin, era stato uno dei giovani studiosi che dalle pagine dei Cahièrs du Cinémaavevano rivoluzionato l’olimpo di celluloide, proponendo accostamenti fino a quel momento impensabili. La ricerca spirituale di Robert Bresson a fianco dei melanconici melodrammi di Howard Hawks, per esempio. Hitchcock era il loro cavallo di battaglia e rimase il regista prediletto da Truffaut anche dopo che quest’ultimo era passato dall’altra parte della cinepresa. Nel 1962, quando per una settimana i due si chiudono in un ufficio della Universal a Hollywood in compagnia dell’interprete Helen Scott, il francese è già stato acclamato per l’esordio alla regia con I 400 colpi ed è già entrato nella leggenda con Jules e Jim. Più che un’intervista, la loro è una conversazione fra colleghi che si stimano reciprocamante, una miniera di aneddotti e osservazioni dalla quale Truffaut trarrà nel 1966 un libro rimasto famoso, Il cinema secondo Hitchock (attualmente edito dal Saggiatore, traduzione di Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto, pagine 318, euro 13,00).  Ora, a cinquant’anni esatti dalla pubblicazione di quel magnifico volume, arriva anche in Italia – dal 4 al 6 aprile, nelle sale selezionate da Cinema e Nexo Digital – il bellissimo Hitchcock/Truffaut, il documentario diretto nel 2015 dal newyorkese Kent Jones e accolto con entusiasmo allo scorso Festival di Cannes. Tecnicamente siamo dalle parti del making of, il film che racconta come è stato girato un film, solo che questa volta il risultato finale coincide con un libro. In apparenza almeno, perché tra quaderni e quaderni di appunti, ore e ore di registrazione e un sopraffino lavoro di montaggio in vista del final cut, le analogie tra cinema e letteratura si sprecano. Questo, andrà subito aggiunto, è il tratto più riconoscibilmente à la Truffaut dell’operazione, considerato il rispetto che il francese ha sempre nutrito per i classici come Balzac così come per scrittori più popolari come il fantascientifico Ray Bradbury. Hitchcok, per quanto lo riguardava, se la cavava magnificamente anche maneggiando materiali meno pregiati, come i romanzi di Robert Bloch (quello di Psyco, appunto) o il diabolico duo Boileau-Narcejac, dal quale proviene l’intricatissima trama della Donna che visse due volte. La qualità cinematografica del dialogo fra i due registi risalta con particolare evidenza da un passaggio dei nastri originali adoperati da Jones per la sua ricostruzione (alla quale ha collaborato in modo significativo l’ex direttore dei Cahièrs, Serge Toubiana). Arriva sul set il fotografo Philippe Halsman per scattare le immagini di repertorio e suggerisce a Hitchcock di dirigere Truffaut, oltre che se stesso. Nasce così la formidabile serie di scatti nella quale le smorfie dei due artisti giocano fra ritratto e autoritratto, in un rispecchiamento pressoché infinito di rimandi e citazioni.  La traccia sonora e le foto di Halsman non sono però l’unico elemento di novità apportato dal film di Jones, che per analizzare più a fondo l’importanza dello storico incontro chiama a raccolta molti testimoni eccellenti. Icone della “nuova Hollywood” come Martin Scorsese, Peter Bogdanovich e Paul Schrader, registi più giovani come David Fincher, Richard Linklater, Wes Anderson e James Gray, cineasti francesi come Olivier Assayas e l’inclassificabile Arnaud Desplechin, fino al re dell’horror giapponese Kiyoshi Kurosawa: ognuno ha la sua sequenza da commentare, ognuno coglie un dettaglio che agli altri sembra sfuggire. Il più agguerrito è forse Fincher, che il libro di Truffaut se l’è imparato a memoria da ragazzo, ma l’apice si tocca quando il vecchio leone Scorsese passa al microscopio la fuga di Vivien Leigh in Psyco. La linea è sempre quella stabilita direttamente da Hitchcok. Il mio, afferma, non un cinema di storie e personaggi, a contare di più è la costruzione dell’immagine, soprattutto mi importa la possibilità di evocare la suspence, che non è necessariamente legata alla paura. Il commento di Jones insiste spesso sul fatto che, pur appartenendo a culture e generazioni differenti, Hitchcock e Truffaut si capissero alla perfezione. Sullo scarto cronologico non si discute (nato nel 1899, l’inglese morì nel 1980, come già ricordato, seguito nel 1984 dal francese, che aveva solo 52 anni), ma la disparità di formazione è un dato da non enfatizzare troppo. Si trattava pur sempre di due europei, accomunati tra l’altro dalla stessa provenienza religiosa. A un certo punto Truffaut – che pure non nutriva uno specifico interesse sull’argomento– chiede a Hitchcok che cosa ne pensa della definizione di “artista cattolico”. Sir Alfred, sornione, intima di spegnere il registratore, ma dopo un po’ deve ammettere che sì, la preghiera dell’innocente Henry Fonda nel Ladro poteva essere rappresentata solamente da un regista cresciuto nella Chiesa di Roma. C’è senso della colpa in Hitchcock, ci sono la consapevolezza del peccato e la ricerca della salvezza, c’è l’inclinazione ad assumere il punto di vista di Dio, con quella caratteristica inquadratura dall’alto che rivela più quanto non riesca a nascondere.  Il meno al posto del più è, del resto, un precetto stilistico che non ammette eccezioni. Se ne accorge anche il buon Truffaut, dopo aver descritto al maestro la scena dei 400 colpi in cui il piccolo Antoine Doinel (impersonato da un giovanissimo Jean-Pierre Léaud) incontra per le strade di Parigi la madre che bacia con trasporto un altro uomo. «Non può non avermi visto», dice la donna all’amante. E Hitchcock, senza pensarci neppure un istante, commenta: «Avrei preferito che non dicesse niente».
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