sabato 25 maggio 2019
Filosofo americano dell'Ottocento, si costruì una capanna nei boschi vivendoci per anni. Qui si imparano verità che non sono scritte sui libri. È la stessa che si apprende sul cammino per Santiago
(albertmt10 da Pixabay)

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Pubblichiamo uno stralcio della postfazione scritta da Marina Corradi, editorialista e inviata di “Avvenire”, al saggio di Henry Thoreau Camminare, edito da Marietti 1820.

Henry David Thoreau, nato nel 1817 a Concord, Massachusetts, filosofo e poeta, si costruì una capanna nei boschi e ci visse, solo, per alcuni anni. Individualista, solitario, selvatico, concepì una sua filosofia della natura e del senso stesso del vivere. Il suo “camminare” è vissuto come impresa spirituale, viaggio di Ulisse, o marcia di pionieri. «Ogni passeggiata è una sorta di crociata, predicata da un Pietro l’Eremita ch’è dentro di noi», dichiara.

Un andare senza pensare alla strada del ritorno, e senza timore di perdersi; o forse, addirittura, con un segreto desiderio di perdersi, per essere portato in luoghi romiti e ignoti, lungo sentieri traversati solo dal passo cauto delle volpi. Occorre camminare, scrive Thoreau, «come un cammello», adempiendo a un compito segreto, a una chiamata interiore. Non è un vagabondare: il vagabondo di Thoreau «non è mai più girovago di un fiume che nel suo corso serpeggiante se ne va diligentemente alla ricerca del percorso più breve per giungere al mare». Un fiume chiamato al mare, che del fiume è il destino: siamo, direi, nella forma mentis, forse inconscia, del pellegrinaggio.

Thoreau annota che, istintivamente, una bussola interiore lo spinge verso ovest. È verso l’Oregon che deve andare, dice, non verso l’Europa: «L’Atlantico è come il fiume Lete, e l’averlo attraversato ci ha dato l’opportunità di dimenticare il Vecchio Mondo e le sue istituzioni». Lasciarsi alle spalle tutto, le città, l’organizzazione e le convenzioni sociali, la stessa civiltà. Avverti in questo americano una eco di Rousseau, quando sostiene che «tutte le cose buone sono selvagge e libere [...]. Datemi come amici e come vicini degli uomini selvaggi, non uomini addomesticati!», e intravedi l’idea dell’uomo come parte di una natura buona e incontaminata, pervertita poi dalla civiltà.

Cose che, da cristiano, tu non puoi condividere, se credi invece in un peccato originale che segna ogni nato. E tuttavia, torni a dirti, soffia fra queste righe qualcosa di vero. Camminare nella natura, affondarci dentro, dunque, ricercando il proprio destino, e insieme la propria origine. Non è l’esperienza, oggi, di migliaia di pellegrini sui sentieri verso Santiago? Potrebbero andare a Santiago in aereo, ma tornano a camminare, a cercare la fatica aspra e buona dei passi sulla polvere.

Io stessa l’ho provata, in una indimenticabile settimana sul Camino Inglés, da La Coruña, sull’oceano, a Santiago, attraverso la Galizia. Era aprile, pioveva e schiariva, la Galizia era un orizzonte ampio di boschi, e di campi di un verde germinale. Calle candide spuntavano, spontanee, da rigagnoli fangosi, e mi sbalordivano: dalla melma, un fiore come una vergine. Un profumo buono di acqua, di terra, di primavera impregnava l’aria. Sulla soglia delle ca- se i vecchi contadini ci salutavano: «Ir con Deus!», auguravano in galiziano. E noi andavamo. Ci alzavamo che era ancora notte, ci incamminavamo che appena albeggiava. Cantavano i galli nelle cascine: meraviglioso quel cantare di galli, mentre l’oscurità, come un nemico in fuga, si dileguava. Non mi ero mai resa conto di quanto potesse essere folta l’ombra di un bosco, e pesante il fango nero in cui affondano i tuoi piedi, dopo la pioggia. E quanto è luminosa, una notte di luna piena. Non avevo mai osservato così bene le giovani felci palpitanti nel sottobosco, e l’edera tenace. Mi si apriva davanti, in quel camminare lontano da ogni strada d’asfalto, un universo. Il mondo, com’era: secoli fa.

C’era un tesoro, in quella natura vergine, in questo Thoreau è assolutamente autentico e ci è contemporaneo. Io di quel tesoro, mentre camminavo in Galizia, avevo una confusa memoria. Sentivo riaffiorare in me le sensazioni di quando ero bambina, d’estate, nelle Dolomiti, e passavo pomeriggi molto solitari, ma splendidi, a esplorare i dintorni della vecchia casa in cui alloggiavamo. Erano i prati di fine giugno con l’erba altissima, quasi quanto me, in cui amavo tuffarmi come in un mare. Era l’ebbrezza del profumo aspro dell’erba appena falciata, e la dolcezza arresa di quello del fieno. Il ronzio diligente delle api all’alveare, l’andirivieni disciplinato delle formiche. Il ruscello dall’acqua incredibilmente limpida, che cosa mi suggeriva senza che io riuscissi a decifrarlo, e perché mi incantava? E il canto degli uccelli fra gli alberi, che mi pareva un chiamarsi fra loro, e rispondersi.

Gramática parda è l’espressione, bellissima, che Thoreau usa per indicare questa lingua. È spagnolo, significa “grammatica oscura”, tacita grammatica che non si impara sui libri, ma nei boschi e nei pascoli. Leggendo questo americano ottocentesco ho capito che l’infanzia solitaria delle mie estati in montagna è stata un dono. Gramática parda: là l’ho imparata senza accorgermene, eppure mi ha costruita. Io non ho avuto una educazione religiosa, eppure quella grammatica dei boschi ha impresso in me uno stupore, un senso di meraviglia, e una domanda.

È in fondo la medesima grammatica che ha plasmato generazioni di uomini: l’ordine armonioso del giorno e della notte, i germogli prepotenti a marzo e il docile morire delle foglie a novembre. Il chiudersi delle corolle dei fiori al tramonto, e il riaprirsi al primo raggio del sole. L’andirivieni degli uccelli che preparano il nido, e la maestà di una gatta che cova i suoi nati, fissando gli intrusi con occhi da tigre. Il nascondersi di ogni creatura viva quando il cielo d’estate si rabbuia, e nella calma improvvisa del vento scocca, secco, il primo lampo.

«Credo nella foresta e nel prato, e nella notte in cui il grano cresce», recita il filosofo americano, come cercando le parole per una sua inespressa preghiera. Io, che credo in Cristo, potrei recitarla con lui. Perché c’è qualcosa di molto grande che tanti di noi, uomini del terzo millennio cresciuti in città d’asfalto o davanti ai computer, abbiamo dimenticato. Non è un ecologismo alla moda, o un moralistico rimproverarci per quanto inquiniamo. È una bellezza, invece, quella che Thoreau racconta: «Ecco dunque questa vasta, selvaggia, incombente madre di noi tutti, la Natura, che vive in tutto quanto c’è attorno, simile al leopardo per bellezza e cura per i suoi figli».

La Natura, che per i credenti è il Creato. Ciò che Dio mostra a Giobbe con fierezza: «Per quali vie si diffonde la luce, da dove il vento d’oriente invade la terra? Chi ha scavato canali agli acquazzoni e una via al lampo tonante, per far piovere anche sopra una terra spopolata, su un deserto dove non abita nessuno, per dissetare regioni desolate e squallide e far sbocciare germogli verdeggianti? Ha forse un padre la pioggia? O chi fa nascere le gocce della rugiada?».

È la Bellezza del capitolo 38 del Libro di Giobbe ciò che emerge come in filigrana, forse inconsapevole, dalla filosofia del laico Thoreau. Contiene in sé la memoria di un ordine primigenio, ciò che governa gli stormi degli uccelli migratori, o gli estri degli animali, o apre all’unisono i boccioli dei peschi magri dei nostri viali cittadini, a marzo. È un ordine buono e grande, cui ci fa bene aderire, e che ci fa molto male sovvertire, come ci ricorda papa Francesco, richiamando l’attenzione della Chiesa su un ambiente a lungo trascurato. Quasi volendo tornare alla limpida fonte francescana, al «Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua, ...».


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