sabato 26 marzo 2016
«Heal my soul», la cura dell'anima
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Sono trascorsi oltre quindici anni dall’ultimo disco di inediti di Jeff Healey e già otto dalla sua prematura scomparsa: ma ieri (quando l’artista avrebbe compiuto cinquant’anni), coloro che ne curano la memoria gli hanno regalato la pubblicazione dell’“album perduto”, quello che aveva iniziato a lavorare venendo interrotto dal cancro. LEGGI LA STORIA DI HEALEYE non si tratta soltanto di un doveroso tributo a uno dei più importanti e innovativi chitarristi rock-blues della storia, giacché Heal my soul (ovvero – e non pare un caso – “cura la mia anima”) è un gioiello di cui Healey andava giustamente orgoglioso, che meritava di essere portato alla luce attraverso un puntiglioso lavoro «di ricerca, restauro sonoro e soprattutto amore», come dice la vedova Cristie, amministratrice della Healey Estate che segue l’eredità del musicista canadese. Il disco si compone di dodici brani mai nemmeno proposti dal vivo da Healey e ne conferma le sonorità chitarristiche uniche, fra passaggi virtuosistici di estrema difficoltà e più parti di chitarra sovrapposte sino a creare un ineguagliabile (nonché sinora ineguagliato) muro del suono di chitarra sola. Ora drammatica ora vitale, ora divertita ora dolorosa, la sei corde di Jeff Healey si insinua nell’anima colorando in più modi brani che vanno dal rock tirato e distorto ( Please e Put the shoe on the other foot) al blues sinuoso e ammaliante ( Baby blue), passando per la modernità di scrittura di I misunderstood e il pop-rock d’impatto immediato delle cavalcate sonore di Daze of the night e Love in her eyes; e se il virtuosismo dell’artista è perennemente in primo piano in tutti i colori del suo arcobaleno espressivo, compresa la fusione rock-blues di Under a stone, mai però sovrasta la verità di un darsi musicalmente in modo compiuto intendendo le sette note soprattutto quale reale espressione di sé: gioie, paure e sfoghi dell’anima compresi. E perciò non crediamo sia casuale neppure come, nella scaletta di un lavoro sicuramente segnato dall’insorgere dell’ennesima malattia, quella fatale, spicchi la triade di brani che oggi è stata giustamente collocata al suo centro: perché sia la musica, una volta di più, a parlare di Jeff Healey. Prima con un blues degno della tradizione, quella Temptation cupa e violenta che culmina però in un esplicito scherzo psichedelico; poi con il pop-rock solare di Kiss the ground you walk on, rimando anche all’ironia generosa di un artista che mai indugiava nell’autocompatimento; e infine, vetta di un album che peraltro si chiude con la volutamente aperta, per quanto consapevole, It’s the last time (è l’ultima volta), ecco una ballata acustica, All the Saints, quasi testamento spirituale e un saluto per amici, parenti e genitori: l’interpretazione intensa e toccante di un uomo che si prepara a «fronteggiare la Verità e abbracciare i Santi». Non capita spesso, che un album postumo abbia tanto senso oltre che tanta bellezza; e certo Heal my soul, considerabile sesto disco effettivo della discografia di Healey, finisce col farci reagire come reagì B.B. King alla notizia della morte di colui che considerava più figlio che erede artistico. Il re del blues dovette prendere fiato e restare a lungo in apnea, per commentare; voi ascoltate questo album e vi accadrà la stessa cosa. Perché non è faccenda che scivola via, il canto dell’anima di un essere umano.
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