martedì 17 novembre 2020
L’infanzia difficile, il fratello disabile, la fede cattolica: i segreti del fuoriclasse inglese che ha vinto il settimo titolo mondiale eguagliando il record di Schumacher
Lewis Hamilton (Mercedes), campione del mondo per la settima volta

Lewis Hamilton (Mercedes), campione del mondo per la settima volta - Ansa/Olga Bozoglu

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È una certezza quasi matematica, quando cominci a vincere tanto, si fa presto a diventare antipatici. “Elementare Watson”, direbbe Sherlock Holmes, tanto per rimanere dalle parti del britannico Lewis Hamilton, sette volte campione del mondo di Formula 1, sempre più nella leggenda di questo sport. Simpatico o meno, i numeri parlano chiaro: 94 Gran premi, 97 pole position, sette titoli mondiali non si conquistano per caso. Il primo addirittura nel 2008 con la McLaren, gli altri tutti targati Mercedes. Una monarchia che dura incontrastata sin dal 2014 se non fosse stato spodestato un solo anno nel 2016 dal suo compagno di squadra Nico Rosberg. Anche domenica in Turchia, quando bastava arrivare al traguardo di un circuito diventato saponetta per la pioggia, ha voluto mettere tutti in riga, sua maestà Lewis VII re d’Inghilterra e di una F1 diventata scontata per colpa/merito suo. Sul podio c’era se non altro Vettel quasi a suggellare le tante soddisfazioni che Hamilton ha tolto in questi anni alla Ferrari (almeno fino a quando non si è tirata fuori dai giochi da sola).

A Istanbul è arrivata ancora una firma di classe dell’unico punto fermo in tempi di pandemia: Hamilton è un sovrano assoluto capace di eguagliare il record di campionati mondiali di Michael Schumacher. Proprio lui, l’idolo mai nascosto per Lewis che ha sempre considerato il tedesco «il più grande di tutti i tempi». Dove invece si colloca l’inglese nell’olimpo dei grandi della Formula 1 è difficile dirlo confrontando campioni di diverse generazioni. Ma è anche un esercizio ozioso, così come voler a tutti i costi soppesare nel computo dei record del pilota il peso di una Mercedes straripante o il vuoto di avversari di reale valore.

Se però c’è qualcosa che i freddi numeri non riescono a mettere a fuoco è il volto che si nasconde sotto la scorza dell’Hamilton duro e cannibale. Occorre andare oltre l’immagine di star milionaria da rivista patinata e del campione social tutto eventi mondani. Lo disse lui stesso una volta: «Amo la moda e, nel contesto del paddock sì, direi che sono orgoglioso del mio modo di apparire, soprattutto essendo fotografato di continuo. Vorrei però che le persone conoscessero qualcosa in più di quel che ho nel cuore e da dove arrivo». Ricostruire allora, alla maniera del detective, i tasselli della sua storia ci riporterebbe al bambino che ha cominciato subito al volante pur di stare più tempo con papà Anthony, originario dei Caraibi, separato da sua madre, la britannica Carmen. Non proviene da una famiglia agiata, Hamilton, che anzi ha definito una baraccopoli il luogo in cui è nato il 7 gennaio del 1985 a Stevenage in Inghilterra. Un’infanzia tutt’altro che semplice: «A 4 o 5 anni ho subito il bullismo dei compagni di scuola… È stato papà che mi ha insegnato fin da quando avevo 6–7 anni a non mollare mai». Al padre riconosce il merito di tutta la sua carriera: «Era impiegato in una ditta di distributori automatici di bevande e finito il turno correva a fare un altro lavoro. Ne ha fatti pure quattro contemporaneamente, per questo ogni volta che mi siedo al volante sono cosciente di quello che ha fatto per me».

Quel bambino che a scuola faticava, anche perché dislessico, ha raccolto la sfida di chi diceva che non ce l’avrebbe mai fatta, togliendosi una soddisfazione dopo l’altra. E si capisce perché oggi sia diventato un paladino contro il bullismo («È una cosa terribile, un comportamento da codardi, chi lo subisce deve chiedere aiuto e la gente che assiste deve intervenire») o il razzismo, a cominciare dal suo mondo visto, che è ancora uno dei pochi piloti neri («Solo adesso comincio a vedere bambini di razze diverse che corrono in auto ed è un cambiamento importante»). È ancora in famiglia però un’altra sua grande fonte di ispirazione: il fratello Nicolas, figlio del padre e della sua seconda moglie, affetto da una paralisi cerebrale dovuta a una nascita prematura. A lungo costretto su una sedia a rotelle, grazie a una rieducazione motoria oggi Nicolas a 28 anni è un pilota professionista. «Quando ero piccolo, chiedevo sempre a mio papà: dammi un fratello – raccontò Lewis al Corriere della Sera – Alla fine è arrivato e già questo mi ha reso felice. Nicolas è un ragazzo disabile, ma ho scoperto e capito che persone nelle sue condizioni hanno una personalità formidabile: cade e si rialza, cade e si rialza sempre. Con serenità. Confesso: mi insegna molto». Se Nicolas è il primo sostenitore del fratello, lo è altrettanto Lewis per lui: «Sono da sempre grato di aver avuto il privilegio di vedere una persona così speciale crescere dalla nascita».

È forse ancora poco noto, ma non è un segreto nemmeno la religiosità di Hamilton ben visibile quando prega prima della gara, tutt’altro che taciuta vista l’inseparabile catenina col crocifisso o il tatuaggio con la scritta «Dio è amore» sul collo: «Sono cattolico, sono un uomo di fede e prego più volte al giorno – ha spiegato – quando mi sveglio, quando vado a letto e prima di ogni pasto. Ho una relazione stretta con Dio, lo ringrazio, chiedo aiuto per gli amici in difficoltà. E domando appoggio per me stesso quando lo stress diventa troppo forte». Colpisce certo in un uomo abituato a sfidare la vita a 300 e passa chilometri all’ora: «Tutto può succedere ogni giorno ma sento che Dio ha la sua mano su di me». Un campione capace di alzare lo sguardo, consapevole del proprio destino, ma che non ha ancora sciolto le sue riserve sul presente e sull’immediato futuro in Mercedes. Ci sarà tempo per chi ha già dimostrato che per diventar grandi bisogna ricordarsi di essere stati piccoli. «Mi mancano le parole – ha detto dopo l’ultimo trionfo –. Ringrazio la mia famiglia e il team, sono andato ben oltre i miei sogni. Spero che i bambini prendano ispirazione da quanto ho fatto. Se vuoi raggiungere i risultati, devi sognare l’impossibile, seguirlo senza mai mollare e mettere in dubbio le tue capacità».

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