domenica 7 agosto 2016
Gozzano: crepuscolare, scanzonato e moderno
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In passato l’immagine di Guido Gozzano tramandataci dalla scuola era quella di un poeta un po’ retrò, passatista e magari anche un tantino “polveroso”. È del resto l’immagine che lui stesso, in parte, ha contribuito a divulgare. Gozzano è il poeta di Cocotte, della Signorina Felicita, dell’Amica di nonna Speranza... Eppure, negli ultimi decenni, la critica più avveduta ha messo in luce il suo ruolo di primo piano nella storia della letteratura italiana del Novecento: Gozzano come iniziatore della poesia contemporanea. Saranno altri i a 32 annipoeti più 'novecenteschi' (Ungaretti, Montale, Saba, Quasimodo...), ma Gozzano, parodiando la tradizione in maniera divertente e scanzonata, ha fatto da apripista alle esperienze successive, soprattutto a quelle più sperimentali. Guido Gozzano moriva a Torino cent’anni fa, esattamente il 9 agosto 1916. Se ne andava a soli 32 anni. Era nato, sempre a Torino, il 19 dicembre 1883, da genitori entrambi canavesani. Il padre, Fausto, ingegnere, e la madre, Diodata Mautino, figlia del senatore Massimo (amico di d’Azeglio e Cavour), donna amante dell’arte e del teatro, si erano conosciuti qualche anno prima ad Agliè Canavese, dove la villa del Meleto (tutt’oggi casa-museo di Guido Gozzano) rappresenterà per il poeta uno dei principali 'luoghi dell’anima'. Conseguita la maturità classica, Gozzano si iscrive alla Facoltà di Legge dell’ateneo torinese, senza però mai laurearsi, per quanto in alcune poesie egli si attribuirà il titolo di avvocato. Due sono le raccolte poetiche fondamentali, che fanno di Gozzano il più importante esponente del Crepuscolarismo: La via del rifugio (1907) e soprattutto I colloqui (1911), uno dei più celebri 'canzonieri' della poesia italiana del XX secolo. Nelle sue liriche Gozzano tende a inglobare continui riferimenti alla letteratura precedente: da Dante a Petrarca, da Ariosto a Tasso, da Leopardi all’amato e insieme odiato D’Annunzio. Proprio per questo rapporto con la tradizione, qualche critico lo ha accusato di plagi nei confronti degli autori che aveva letto e che, per una sorta di memoria involontaria, tornavano nei suoi versi. Questa attitudine all’utilizzo di materiali di varia natura è stata definita 'postmoderna'. Forse è proprio lui, nel nostro Novecento, l’iniziatore di quella linea della contaminazione disinibita e della ripresa in una chiave sostanzialmente depotenziata con cui identifichiamo, appunto, la poetica del postmoderno. Perciò Gozzano non va valutato negativamente in quanto 'poeta della letteratura': «il fatto che Gozzano sia stato il maestro di giocolieri e funamboli del linguaggio », ha scritto bene Giuliano Ladolfi, «non dipende dall’essenza del suo poetare, ma dal fatto che certi giudizi critici hanno colto solo l’aspetto esteriore della sua produzione trascurandone le cause». È dunque importante, per ridare a Gozzano il giusto posto nella letteratura italiana del Novecento, rileggerne l’opera al di là dei cliché e dei luoghi comuni critici, ripetuti senza un effettivo vaglio di saggio in saggio, di storia letteraria in storia letteraria. Certo, non c’è dubbio che Gozzano sia il capostipite di quel- la 'scuola dell’ironia' (come la chiamò il critico Marziano Guglielminetti) che ebbe a Torino, ai primi del Novecento, il suo centro propulsore. Ma è opportuno leggere la sua opera anche oltre questa costante ironica. Perché spesso, sotto la superficie di un sorriso amaro, emergono questioni e tematiche esistenziali tutt’altro che banali. Primo tra tutti il motivo della morte. Gozzano si era ammalato molto giovane di tubercolosi, la malattia che lo condurrà a morte precoce. Il confronto serrato con «la Signora vestita di nulla» (come la chiama in un suo testo, “L’ipotesi”) lo induce a una serie di riflessioni profonde, la cui urgenza l’ironia riesce solo in parte ad attenuare. Connesso a questa attesa della morte è anche l’altro grande tema della produzione gozzaniana: l’aridità sentimentale, vale a dire l’impossibilità di amare. Sappiamo di una relazione tormentata con la poetessa torinese Amalia Guglielminetti, rapporto testimoniato da un fitto carteggio, forse però più schermaglia letteraria che documento realistico. Sapendo di essere condannato a una fine imminente, Guido non riesce a lasciarsi andare al vitalismo del sentimento e della passione, che dunque tende a rimuovere dal proprio orizzonte di vita. Per sfuggire alla morte – anche la medicina ha le sue mode, e quella del tempo suggeriva simili soluzioni... – nel febbraio del 1912 Gozzano si imbarca con un amico, anch’egli tubercolotico, per un viaggio in India, un itinerario terapeutico più che turistico, da lungo tempo progettato e sempre rinviato proprio per la salute precaria. Toccata Napoli, Porto Said, Aden, ai primi di marzo giunge a Bombay e poco dopo a Kandy, sull’isola di Ceylon, da dove, alcune settimane dopo, riprende la via del ritorno. Due anni più tardi scriverà di quell’esperienza in una serie di articoli per il quotidiano 'La Stampa', inventandosi però di aver visitato molti altri luoghi dell’entroterra indiano (tra cui Goa, Madras, Delhi, Agra, Jaipur, Benares), dai quali fingerà di inviare una serie di corrispondenze di viaggio, poi raccolte nel volume postumo Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1917). Ebbene, nei capitoli che andranno a costituire il volume indiano troviamo una pensosità di toni e una sincerità di espressioni che danno un’immagine dello scrittore piuttosto diversa da quella che affiora dalle poesie. Emerge ad esempio con prepotenza il motivo religioso. Sappiamo che la religiosità gozzaniana non era stata sostenuta, negli anni giovanili, da una convinta adesione al credo cattolico, al quale pure era stato educato. Anzi, in una poesia dei Colloqui, “Pioggia d’agosto”, egli afferma esplicitamente la sua 'allergia' alle ideologie positive, comprese quelle di matrice religiosa: «La Patria? Dio? L’Umanità? Parole / che i retori t’han fatto nauseose». Da qui l’adesione a una filosofia naturalistica venata di panismo, lontana da qualsivoglia dottrina religiosa costituita. Eppure in una lettera del 22 ottobre 1910 al direttore del quotidiano 'Il Momento', in risposta a un’inchiesta sull’arte e sulla poesia nell’ambito della quale era stato interpellato, Gozzano scrive: «Oggi credo nello spirito, sento, intendo in me la vita dello spirito [...]. Non so se sia questa la mia via di Damasco, né se mi porti in avvenire a una fede dogmatica, ma sento che questa è la via della salute [...]. La stessa fede nel positivismo che attraversammo, ci insegna che il positivismo fu un’illusione, che vane furono le apologie della materia e della matta bestialità [...]. La parola anima non fa più sorridere gli uomini di intelletto, come appena vent’anni or sono, ma rende curiosi e meditabondi». L’anno prima di morire Gozzano dedicherà a san Francesco d’Assisi un’“orditura fotogrammatica”, cioè il soggetto di un film che si sarebbe dovuto girare a partire dall’estate del 1916, un progetto che poi non si realizzerà per l’inesorabile peggioramento delle condizioni di salute. Francesco affascinava Guido per la radicalità della sua scelta di vita, per la profondità del suo amore per Dio e il creato, per la seraficità della sua esistenza in tutti i suoi episodi. Come per Dante (si ricordi il canto XI del Paradiso), anche per Gozzano Francesco è una sorta di alter Christus. La figura di Gesù attirò costantemente Guido: si pensi alle sue celebri poesie natalizie, come La notte santa, imparata a memoria da generazioni di scolari. Questa 'nostalgia del divino' era destinata a prendere in lui sempre più corpo e presenza, acuendosi negli ultimi tempi. Fino a quando - in punto di morte - chiese di riconciliarsi con Dio e con la sua Chiesa, facendo chiamare al proprio capezzale il sacerdote per ricevere i sacramenti. Ad assisterlo spiritualmente fu padre Mario Dogliotti, l’amico della giovinezza divenuto benedettino con il nome di Silvestro. Fu l’epilogo di una vita sofferta, tormentata fisicamente e psicologicamente, segnata però da una costante, sottile, sincera ricerca interiore. © RIPRODUZIONE RISERVATA Letteratura. Il poeta torinese morì cent’anni fa di tubercolosi. Oltre le incomprensioni della critica, oggi emerge come precursore di successive poetiche di scrittura sperimentali Amava la “citazione” Forse è proprio lui, nel Novecento, l'iniziatore di quella linea della contaminazione disinibita e ironica con cui identifichiamo, appunto, la poetica postmoderna Sotto la superficie di un sorriso amaro, celava questioni tutt’altro che banali, anzitutto quella della morte (se ne andò a trentadue anni) Verso la fine lavorava a mettere a punto il palinsesto per un film su san Francesco ANNIVERSARIO. Guido Gozzano, nato nel 1883, morì a Torino il 9 agosto 1916
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