venerdì 25 febbraio 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Tra i "fascisti riverniciati", ossia quella parte di intellettuali che nel dopoguerra fece professione di antifascismo e lavò l’antica camicia nera fino a stingerla del tutto, un posto particolare occupano i liberali e i laici di varie tendenze. Una personalità di rilievo fu quella di Augusto Guerriero, un conservatore illuminato i cui scritti meriterebbero di essere riscoperti. Noto anche con lo pseudonimo di Ricciardetto, che usava nei suoi articoli pubblicati su "Epoca" a cominciare dagli anni Cinquanta, Guerriero fu il commentatore principe di politica estera del "Corriere della Sera", fino al suo siluramento avvenuto nel 1972. Editorialista raffinato e coltissimo, sempre accuratamente documentato nelle sue affermazioni, Guerriero è stato sempre considerato un "afascista", ossia un osservatore neutrale e non ideologizzato che durante il Ventennio utilizzò le tribune della stampa per comunicare punti di vista e ragionamenti non asserviti alle ragioni della propaganda. Questo è in parte vero. Sennonché, a un’analisi più rigorosa, appare di tutta evidenza ciò che finora è stato sottaciuto: anche Guerriero non si sottrasse al dazio che il regime chiedeva agli intellettuali, ossia una qualche concessione alla visione più "partecipata" degli eventi della cronaca di allora entrati a far parte del panorama storico di oggi. Ad esempio, in anni recenti, sono stati riportati alla luce alcuni articoli antisemiti firmati da Ricciardetto sul "Corriere" negli anni Quaranta.Non fu peraltro l’unico scivolone compiuto da Guerriero negli anni dell’Asse e della guerra mondiale. Per quanto riluttante a varcare la soglia del conformismo di regime, e per questo non di rado censurato, Augusto Guerriero conobbe il suo exploit professionale proprio negli anni in cui il fascismo andava assumendo alcuni marcati tratti totalitari. Nel 1935-36, Vittorio Gorresio gli assegnò una rubrica di attualità internazionale nell’"Eco di Mondo". Quel grande talent scout che fu Leo Longanesi colse negli articoli del giornalista stoffa di qualità e gli affidò la responsabilità di commentare su "Omnibus" la politica estera. Dopo la soppressione di "Omnibus", sul quale s’abbatté la pesante scure della censura, nel 1939 Guerriero fu tra le firme di punta della neonata rivista di Mondadori: "Tempo". Salvo migrare già l’anno seguente al "Corriere", dove divenne assiduo collaboratore della terza pagina.Proprio gli articoli dei primissimi anni Quaranta furono raccolti in un volume di Bompiani, Guerra e dopoguerra, che contiene un’analisi disincantata delle pavidità dei Paesi democratici di fronte all’avanzata del nazionalsocialismo in Europa.Ma per quanto tentasse di sottrarsi alle brutali necessità della propaganda della nazione in guerra, Ricciardetto non fu esente da qualche caduta di stile. Alla morte dell’ex premier britannico Neville Chamberlain, nel novembre 1940, scrisse: «Poco dopo essere uscito dal governo, il vecchio Chamberlain uscì da questo mondo. Era tempo. Sarebbe stato infinitamente meglio per lui e per tutti se fosse morto prima, molto prima. Nessuno lo pianse tranne la moglie, che gli sopravvisse poco. Era morto di una comune e volgare malattia, come muore tanta gente ogni giorno. Se fosse stato un generale giapponese, si sarebbe ucciso assai prima».Anche un uomo alieno alle invettive, arrivò dunque a sbeffeggiare i capi delle nazioni occidentali imbelli. In un altro articolo, definì «abietto e infame» il regime parlamentare della Terza repubblica francese, impiccando un intero popolo – arresosi quasi senza combattere alle armate di Hitler nel giugno 1940 – alla vergogna della propria diserzione. Anche davanti alla figura del primo ministro francese, come aveva fatto per Chamberlain, Guerriero tornò ad agitare il cappio o il karahiri: Daladier era un codardo, perché «un ministro giapponese, al suo posto, si sarebbe ucciso». Non troppo tenero fu anche nei confronti del presidente americano Roosevelt, che accusava di aver condotto – alla testa del suo popolo – una linea politica «pacifista per conto proprio e bellicista per conto altrui». Gli Usa rooseveltiani, insomma, prima di essere trascinati nel conflitto dall’attacco dei giapponesi alla base di Pearl Harbor, denunciavano al mondo la viltà di Francia e Inghilterra, salvo poi rifiutarsi a loro volta di combattere.Ricciardetto si trova in buona compagnia nella galleria del giornalismo e della cultura nostrana del Novecento. Basta scorrere le annate del "Tevere", quotidiano mussoliniano turgido di retorica imperiale, per trovarvi le iperboli della propaganda fascista sotto firme di personaggi insospettabili che certo non venivano reclutati per un caso fortuito della vita. Il "Tevere" diretto da Telesio Interlandi fu, fin dal 1934, inesorabile martellatore della nuova coscienza "razziale", mentre sulle sue pagine comparivano le firme di Massimo Bontempelli, Achille Campanile, Vincenzo Cardarelli, Ugo Ojetti, Luigi Pirandello, Alberto Savinio, Orio Vergani, Alessandro Bonsanti, Ruggero Orlando, Elio Vittorini, Corrado Alvaro, Vitaliano Brancati.Proprio del socialista liberale Ruggero Orlando, indimenticato volto della tv italiana, ex esule antifascista affinatosi professionalmente dai microfoni di Radio Londra, abbiamo trovato un esemplare articolo, sfogliando l’annata 1931 del "Tevere". Sul numero del 27 ottobre, un’ampia corrispondenza a sua firma riferisce della Mostra nazionale d’arte dei Guf a Napoli. Il pezzo così esordisce: «Una lode anzitutto va rivolta ai gerarchi nazionali per il consenso da essi espresso a titolo di incoraggiamento a questa mostra d’arte nazionale che si tiene nelle sale dell’ala sinistra di Castelnuovo o Maschio Angioino che dir si voglia, secondo il termine energico [leggasi "virile", ndr] preferito dalla totalità dei napoletani: l’ambiente dei giovani intellettuali è infatti il più adatto per esprimere i rappresentanti di quelle energie che formeranno il patrimonio della nazione di domani".A questo programmatico cappello fa seguito un’esaltazione del nuovo slancio in senso fascista rivoluzionario impresso dagli artisti alla vita nazionale. Il tutto condito da un attacco al crocianesimo e, in generale, a quella scuola di pensiero liberale fiorita a Napoli tra Otto e Novecento, in campo storico e filosofo. Tutto ciarpame, sentenzia Orlando, giacché nella «capitale intellettuale dell’Italia liberaldemocratica» le «scorie del passato sembrano incrostate più robustamente che altrove», mentre è necessaria una robusta spallata in grado di «imporre al pubblico vedute consone alla onestà e alla modernità» espresse dai novelli spiriti eletti. Conclude il futuro corrispondente Rai da New York: «È significativo quindi che, proprio nel decennale di un evento politico squadristico [la Marcia su Roma, ndr], il quale mutò con un colpo di timone rivoluzionario la fisionomia dell’Italia, un’ondata artistica di giovani di tutte le regioni porti nella regina del Mediterraneo un soffio di aria nuova, indipendente da controlli e animato di seria e onesta strafottenza».(2, fine. La precedente puntata è stata pubblicata martedì 23 febbraio)
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: