sabato 17 maggio 2025
L’artista eclettico e itinerante, scrittore, attore e cantautore si racconta dall’ultimo singolo “Turno di notte” per arrivare al suo festival, “Evanland”: «Sono un “raccontatore” che pesa le parole»
Il poeta e cantautore Giovanni Giancaspro, in arte Gio Evan

Il poeta e cantautore Giovanni Giancaspro, in arte Gio Evan - Danilo D'Auria

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«Scoprirai che al dolore non c’è età… e amati sti guai… Vorrei tornare a ieri mia madre ancora in vita. Non ce ne siamo mai andati abbiamo preso le botte e quando il mondo era in festa noi a fare il turno di notte», canta Giovanni Giancaspro, in arte Gio Evan. Artista a tutto tondo il 37enne nato a Molfetta che è scrittore (ha appena pubblicato il nuovo romanzo Le chiamava persone medicina - Rizzoli ), “cantattore”, in scena con il tour teatrale L’affine del mondo e dulcis, raffinato cantautore. Quello in incipit infatti è un verso del suo ultimo singolo, la struggente Turno di notte (prodotto da Lovassai e distribuito da ADA Music). Canzone che parla delle «perdite imperdibili », sottolinea, quella della madre che inevitabilmente rimanda a Quando sarai piccola, lo splendido brano sanremese di Simone Cristicchi.

Gio Evan che con Cristicchi condivide il ricciolo folto e ribelle oltre allo sguardo poetico e spirituale, annuisce e condivide con orgoglio il paragone, ricordando che invece il suo ultimo Sanremo è stato quattro anni fa con Arnica, canzone inserita in uno dei suoi album dal titolo sempre volutamente ancestrale, Mareducato. Il doppio senso filologico lo tiene a guinzaglio fin dal disco d’esordio, Cranoterapia che stava dentro la custodia del progetto musicale Le scarpe del vento. Unico guinzaglio di uno degli artisti più liberi e indipendenti, ma soprattutto dotato di grande sensibilità, riconoscibile anche in questo canto d’addio che è Turno di notte. «Ho avuto la fortuna di accompagnare mia madre fino all’ultimo respiro. È stato un dolore diluito nel tempo. Un percorso lentissimo in cui mamma ha mostrato una resistenza fortissima. Come fortissima è stata la mia esperienza in cui mi sono reso conto che il dolore della perdita prende tutto e tutti».

Consapevolezza di un poeta in musica che si nutre di emozioni.

«I ricordi fanno dannatamente male ma noi ci stiamo dentro. Con questa canzone ho voluto semplicemente dire che non voltiamo mai le spalle dinanzi a chi soffre e anche quando il mondo era in festa, noi lì, ad assistere chi si ama facendo il turno di notte. Mio figlio ha 12 anni e mio nipote 5 e cantandogli Turno di notte è un po’ come se gli mostrassi la foto della nonna, una bella foto di famiglia che forse non ingiallirà mai».

Papa Francesco parlava del valore immenso che hanno i nonni all’interno della famiglia.

«Io ho avuto la sfortuna di non viverne neanche uno di nonno, così me li sono fatti prestare dagli amici. Anche nel mio ultimo romanzo , Le chiamava persone medicina, mi sono fatto prestare la nonna dal mio amico e sodale artistico Bruce. Nel libro si chiama Adele, vive la montagna, madrelingua silenzio, conosce il dialetto della natura e anche quello umbro.Io sono cresciuto nelle campagne di Gubbio. Ora con la mia famiglia vivo ancora in una casa di campagna da dove vedo il mare di Porto Sant’Elpidio. Uno spettacolo che si ripete ogni giorno».

Con Gio Evan siamo sul palco sempre più rarefatto del “teatro canzone”.

«Ho registrato 4 album e a novembre sarà pronto il 5° disco. Il teatro-canzone è la mia dimensione naturale perché sono prima di tutto un “raccontatore”. La mia musica deve adattarsi alla mia narrativa. Mi piace fare stand up cabaret e tutto questo deve creare dei momenti di sottofondo che è poi la canzone. In teatro mi riconosco nei parolieri in scena, come quel grande giocatore linguistico di Alessandro Bergonzoni e ancora di più nell’affabulazione surreale di Antonio Rezza. Il mio lavoro si basa tutto sull’importanza, il peso e la scelta delle parole, quelle da conoscere e che poi pronunci. A volte vengo un po’ odiato dai miei amici perché mi capita di sottolineare i termini impropri che usano. Ma non è saccenza, è un consiglio di vita: usare le parole che ti servono e che vuoi dire veramente, alla fine sono le parole che ti faranno vivere meglio».

Un lavoro di ricerca lessicale e poi musicale, iniziato con un “viaggio dell’anima”.

«A 14 anni ho lasciato il campetto di calcio e ho cominciato a viaggiare alla scoperta del mondo. A due passi da Gubbio, a Santa Cristina, trovai Alcatraz, la libera università creata da Jacopo Fo che all’epoca mi sembrava il posto delle fragole. A 18 anni sono finito in India dove ho seguito la via del buddhismo, poi l’induismo e la meditazione. Ho vissuto per tre anni tra un ashram e l’altro. Da lì sono volato in Argentina da Buenos Aires fino alla fine del mondo, in Patagonia».

Filosofie e dottrine orientali, ma la prima religione a cui si era legato era quella cristiana.

«Sono stato discepolo di padre Arturo Paoli. Sono partito da Gubbio a piedi e ho viaggiato fino a Lucca, per salire fino al monastero di Pieve Santo Stefano dove mi presentai vestito da apostolo, tutto di marrone. Appena arrivato mi gettai ai suoi piedi e glie li baciai. Allora fratel Arturo mi prese a schiaffi e mi intimò di alzarmi. Ho vissuto con lui, mi parlava della forza della parola di Cristo che aveva portato fino in Amazzonia dove apprese la Teologia della liberazione e fece esperienza diretta dello sciamanesimo. Sosteneva che cambiano solo le parole e la lingua, ma la fede è sempre la stessa in qualsiasi popolo del mondo. Perciò prima di salutarmi fratel Paoli mi disse: “Tieniti stretta questa fede e non cedere mai all’ego”».

L’unica forma di egocentrismo che si sta concedendo è forse l’annuale festival che ha chiamato “Evanland”.

«L’anno scorso sono stati due giorni meravigliosi al Carroponte di Milano, quest’anno il 26-27 luglio “Evanland” sarà ad Assisi. Il pubblico arriva all’appuntamento “pellegrinando”. Sotto il palco ho visto persone di tutte le età emozionarsi e scoppiare in lacrime. La gente ha l’urgenza di aprirsi, di fare comunità. Dai più giovani agli adulti, tutti hanno la necessità di confrontarsi con altre sensibilità, di scoprire un amico e magari un maestro, che gli indichi la via, senza salire in cattedra. Oggi i drammi accadono quanto ti accorgi che sei da solo. Sotto il cielo di “Evanland”, attraverso scrittori come Erri De Luca, artisti, pensatori, la mia musica e quella dei Massive Attack e tanti altri ospiti del festival, si vedono chiare le costellazioni familiari che per due giorni seguono corsi di carezze e di tenerezza».

Un messaggio d’amore e di pace dalla terra di san Francesco e ora anche del Beato Carlo Acutis.

«Ho visto di recente la salma di Carlo Acutis alla Chiesa della Spogliazione. È un immagine potente, “un ponte” come dice papa Leone XIV, tra le generazioni che Carlo Acutis è stato capace di costruire in appena 15 anni di vita. Nella mia Gubbio, san Francesco aveva vissuto per undici anni e quella spiritualità francescana che da ragazzo avvertivo confusamente, mettendo al collo un Tau gigante sopra a delle maglie induiste, da adulto la sto risistemando in un percorso che è pieno di ricerca, e questa mi conduce puntualmente a delle meravigliose sorprese. Del resto in Turno di notte canto: « Perché qui tutto resta. Noi siamo amori e incidenti, nient’altro che questi».

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