venerdì 7 dicembre 2018
Nel 1970 il brasiliano, l’ala destra più forte di tutti i tempi, arriva in Italia e per 80mila lire a partita gioca nel Sacrofano. Jvan Sica torna a quei giorni e a quel campo a Torvanica
Manoel Francisco dos Santos, detto Garrincha

Manoel Francisco dos Santos, detto Garrincha

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Il passero Garrincha era nato sghembo - con le ali rattrappite dalla polio - e poco adatto per stare su questa terra, così avara d’amore per le sue anime più fragili. Per questo, al primo frullo, con un pallone di stracci tra i piedi, sognò di volare via, libero nel cielo... Eppure la sua storia odora ancora d’erba di casa nostra, piccole perle di un calcio di poesia che fanno il giro del mondo, decollano dalla favela di Rio de Janeiro e atterrano qua, quasi cinquant’anni dopo, come il romanzo popolare di Garrincia scritto da un bracconiere di storie di cuoio, Jvan Sica.

Garrincia, all’italiana, ma va pronunciato alla romana, perché questo romanzo parla della breve ma intensa stagione capitolina del grande Manoel Francisco dos Santos, detto Garrincha (nomignolo del passerotto tanto amato da sua sorella Rosa), l’ala destra più forte di tutti i tempi, il campione del mondo con il Brasile a Svezia 1958 e Cile ’62.

Sica va oltre la mitologia del bimbo prodigio nato, nella favela di Pau Grande (distretto di Maugè), con il doppio handicap: la povertà famigliare e una gamba destra più corta di sei centimetri rispetto alla sinistra. No, l’autore di Garrincia passa a risfogliare una microstoria strappata anche alla sabbia della spiaggia di Torvaianica, lì dove Mané era sbarcato con il suo grande amore, la cantante brasiliana, la “roca” Elza Soares.

Un uomo in fuga con la bella cantante, anche per lasciarsi alle spalle un quotidiano fatto di alcolismo matto e disperato, e un incidente stradale in cui (probabilmente in preda ai fumi) Mané aveva causato la morte della suocera. A Roma, con Elza e quattro, dei quattordici figli, Garrincha arriva con una valigia piena di saudade e chicchi di caffè da smerciare, nell’anno del Mundial di Mexico ’70. E quell’estate, al Circolo dei pescatori di Ostia, poco lontano dall’idroscalo in cui cinque anni dopo venne massacrato il Poeta (anche del gol) Pier Paolo Pasolini, Mané «s’era guardato le partitaedell’Italia».

Assieme ai ragazzi di vita di allora e gli avventori di una periferia romana che cominciava a dare segnali inquietanti, da futura “suburra”, Mané aveva assistito alla partita più lunga del secolo, Italia-Germania 4-3, e poi alla finale mondiale del suo Brasile che mise in ginocchio gli azzurri stanchi e provati dalla precedente impresa con i tedeschi. Ubriaco, anche di nostalgia, vide alla tv il 41 del terzo trionfo iridato del Brasile trascinato da O’ Rei Pelè. Il suo compagno della Seleçao con cui era salito sul tetto del mondo nel ’58. Senza di lui Garrincha aveva stravinto il Mondiale del ’62, ma assieme a Pelè in maglia verdeoro non aveva mai conosciuto la faccia triste della sconfitta (in 60 partite con la Seleçao ne perse solamente una). E infatti detto popolare carioca recita: «Quando a un brasiliano parli di Pelè, quello si toglie il cappello. Ma se gli parli di Garrincha, allora il brasiliano per la commozione piange».

Per Mané piangevano soprattutto i poveri perché lui per loro rappresentava il riscatto assoluto, era e rimane l’Alegria do povo. L’allegria del popolo, la gioia e il sogno degli ultimi della favela, vecchi, donne e bambini che non aveva mai dimenticato e ai quali si donava generoso ogni volta che tornava a Pau Grande.

L’indimenticato Ugo Riccarelli prima di morire diede alle stampe Garrincha (Perrone editore) un piccolo e prezioso libro di stampo tabucchiano in cui ricordava João Paulo Pirinha, al quale Mané, il giorno che abbandonò le stampelle sui cui si reggevano le sue «gambette secche e malferme di passerotto », fece il primo dei suoi infiniti e magici dribbling. Anni dopo quando tornò a Pau Grande e vide l’amico Pirinha ridotto a straccione sdentato, «gli lasciò la sua macchina grande come una nave» e quello ricambiò con il sorriso più grande e riconoscente del mondo.

Generosità del figliol prodigo del Brasile, che teneva i pochi risparmi nei cassetti, pronti per essere gettati al vento come i coriandoli del Carnevale di Rio. Piangeva miseria il Garrincha delle notti brave romane in cui annegava nel bicchiere in attesa che Elza terminasse i suoi tre concerti settimanali per cui il Teatro Argentina l’aveva scritturata. Per riempire i tanti vuoti, quante le bottiglie che scolava in un giorno, accettò di tornare in campo. A chiamarlo, preoccupato anche delle condizioni in cui si era ridotto, fu il suo amico e compagno nel Botafogo, Dino da Costa che a Roma dal 1955 al ’61 aveva incantato la sponda giallorossa (70 gol in 140 partite, record di reti nei derby contro la Lazio, 12).

Da Costa, in campo e in panchina, predicava fútbol bailado a Sacrofano, paese di 8mile anime a 27 chilometri da Roma. L’allora squadra di Promozione non poteva tesserare uno straniero (le norme federali lo vietarono fino al 1980) ma si permise il lusso di ingaggiare quel 37enne brasiliano due volte campione del mondo. «È arrivato Garrincia», schiamazzavano festanti i pischelli di Sacrofano. «Un fenomeno, nonostante l’età e la pancia pronunciata, gonfia d’alcol», ricorda l’aedo italobrasilero Darwin Pastorin, autore dell’epico Ode per Mané (Limina).

Garrincha tornava buono per le amichevoli e i tornei come quello di Mignano Monte Lungo, in cui per l’esibizione il “Chaplin del calcio” percepì 80mila lire: quello era il suo gettone di presenza. Lo stipendio medio di un dipendente pubblico di allora per Mané, mentre Pelè si avviava a incassare montagne di dollari nei Cosmos di New York.

Garrincha tirava a campare, giocava per divertire operai, ladri e prostitute di borgata. Raccontano che, nonostante la solita leggerezza dell’essere e un ventre un po’ più pesante, dribblasse ancora volando e scartava ancora anche la morte. Dicono, chi c’era ad assistere in quei campi dimenticati da dio che una domenica Mané si inventò un paio di gol direttamente dal calcio d’angolo.

Nelle rare foto scattate in quell’agrodolce vacanza romana, appare sempre con il volto triste di un bambino invecchiato. E un giorno, senza preavvisso volò via, verso un altro letargo sudamericano. Altre piccole Sacrofano, di Colombia e Uruguay, tramandano la leggenda del passaggio fugace di Garrincha nella loro squadretta locale. Giornate memorabili, per la gente che andava a vedere il canto finale del passerotto leggendario, che, una notte di gennaio dell’83, dopo aver bevuto l’ultimo calice avvelenato, richiuse dolcemente le ali e si addormentò, per sempre.

Sulla sua tomba a Rio neanche un fiore alla memoria dell’eroe popolare di tutti gli stadi. E questo era già grave, specie per un paese malato di calcio come il Brasile. Ma è stato molto peggio scoprire che quella tomba è stata profanata: il corpo di Mané lì dentro a quel pezzo di marmo gelido non c’è più. È volato via davvero. Era il suo destino, e stasera su un palco lo canta anche la band, la Banda Bassotti: «Aprite quella gabbia d’oro / il passero riprende il volo / morire povero e da solo ma libero / Garrincha Gol».

Jvan Sica
GARRINCIA
InContropiede. Pagine 164. Euro 15,50

Jvan Sica con il romanzo “Garrincia” torna con la memoria calcistica nel paese laziale e tra la gente di quel piccolo campo di provincia dove si esibì l’uomo che con Pelè fece grande il Brasile Sopra: cerchiato Garrincha con la squadra del Sacrofano. Sotto: al Botafogo

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