giovedì 29 novembre 2018
A 86 anni parla il coach che ha fatto grande l’Italia e cresciuto generazioni di cestisti: «L’azzurro deve essere sempre un onore»
Sandro Gamba, classe 1932, storico allenatore della Nazionale di basket

Sandro Gamba, classe 1932, storico allenatore della Nazionale di basket

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L’appuntamento è in una storica palestra di Milano. Qui, a dispetto dei suoi 86 anni, viene ad allenarsi tre volte a settimana: «Quaranta minuti di cyclette, un po’ di ginnastica… Non posso farne a meno». Il bastone è solo la sua «terza gamba» come ama ripetere, per il resto è un fiume in piena di ricordi spassosi e perle di saggezza. Viene fuori subito l’umorismo fine di un signore che ha attraversato il Novecento col pallone di basket tra le mani scrivendo la storia di questo sport. Non ha bisogno di presentazioni Sandro Gamba, classe 1932, monumento della pallacanestro italiana con il record di panchine da ct azzurro: dodici anni, dal 1979 al 1985 e dal 1987 al 1992, coronati da trionfi come l’argento alle Olimpiadi del 1980 o l’oro europeo nel 1983. Tanti i successi anche nei club, tra cui cinque scudetti e due Coppe Campioni. Senza dimenticare i dieci scudetti da giocatore con l’Olimpia Milano. Una carriera culminata nel 2006 con l’ingresso nella Hall of Fame di Springfield (Usa), il museo che celebra i più grandi della pallacanestro mondiale.

L’amore per il basket nel suo caso è stato più forte di una mitragliata…
«Era il 25 aprile del 1945, non avevo ancora 13 anni. Giocavamo con gli amici a pallone in via Washington a Milano quando ci fu una sparatoria: da un lato i partigiani, dall’altro i fascisti. Nelle raffiche di mitra ci finì anche la mia mano destra. Volevano amputarmela perché era spappolata, ma per fortuna i miei genitori decisero di non ricorrere subito all’intervento. Per quattro anni fui costretto a portare in tasca una pallina da tennis con cui fare esercizi. E piano piano riconquistai il tatto. Un soldato americano mi aveva consigliato anche la palla da basket. Aveva ragione: all’inizio la mano mi faceva male, ma poi ha cominciato a funzionare…Anche se io stravedevo per un altro sport».

Quale?
«Il ciclismo. Impazzivo per Fausto Coppi. Mio padre mi comprò una bici da corsa e iniziai presto a gareggiare. A 14 anni vinsi una cronometro a Milano ma sul traguardo un signore, Mario Borella, consulente della Borletti pallacanestro, mi fulminò: “ L’è mèi che te gioga al basket”. Ma come? Avevo appena vinto una corsa... Però mi convinse. Andai ai primi allenamenti e da allora il basket non sarebbe più uscito dalla mia vita».

Per la pallacanestro abbandonò anche gli studi…
«E feci arrabbiare molto mio padre. Erano gli anni incerti del Dopoguerra. Papà era stato chiaro: “A casa a fare niente tu non ci stai”. Così alla Borletti cominciai a fare il disegnatore. Lavoravo e giocavo e a 19 anni arrivò il primo scudetto. Quando però l’Olimpia cambiò sponsor diventando Simmenthal il mio nuovo impiego fu vendere i loro prodotti: andavo in giro per salumerie a vendere carne in scatola Simmenthal… Per dieci anni mi alzavo alle sei, finivo alle tre di pomeriggio e dalle tre in poi andavo in palestra. Tornavo a casa alle 21 distrutto, però ero contento. E poi non ero certo l’unico: oggi la vita dei giocatori è diversa, allora invece tutti lavoravamo o studiavamo».

Che cos’ha il basket di più degli altri sport?
«È completo. Usi tutti gli arti e soprattutto devi far lavorare il cervello. Io sono amante anche del calcio, sono tifoso milanista, ma a volte mi fa addormentare… Il basket è più spettacolare, già solo per il fatto che non esiste il pareggio».

Le piace oggi la pallacanestro italiana?
«Abbastanza. Da milanese tifo Olimpia e quest’anno l’Armani sembra davvero forte: vinceranno facilmente lo scudetto e possono arrivare anche alle Final Four di Eurolega. Seguo tutte le partite al Forum, con mia moglie o amici. In Italia gioca bene anche Venezia. Mi dispiace invece per i problemi societari di Cantù, è un club storico, sarebbe una perdita per tutto il movimento».

Sulla panchina della Nazionale siede oggi invece un suo allievo…
«Meo Sacchetti è un grande allenatore, con tanta passione e giusta mentalità. I successi più importanti della mia Nazionale sono arrivati con lui in campo: non avevo dubbi che sarebbe stato un ottimo coach. È il miglior tecnico della Serie A, con Cremona vince partite incredibili».

Sacchetti in Nazionale deve sempre fare i conti con il forfait dei giocatori Nba o di quelli impegnati in Eurolega.
«Giocatori e società fanno sempre fatica a rispondere alle convocazioni: ma allora poi non vi lamentate se la Nazionale non vince. Sacchetti deve fregarsene e chiamare sempre i migliori. Capisco i contratti Nba, però a Gallinari consiglio di parlare sempre col ct e non mettere in mezzo il presidente federale. Sacchetti sa bene che ha bisogno di lui come di Belinelli e comprendo il suo dispiacere: anche io ero un romantico e mi arrabbiavo molto per chi rinunciava. Ma la verità è che molti snobbano la Nazionale: una volta era un onore, oggi invece ci tengono solo a giocare Olimpiadi e Mondiali, già per gli Europei nicchiano…».

Contro la Lituania il ct ha richiamato Alessandro Gentile.
«Ha fatto bene: ha 26 anni è un talento da recuperare. In passato avevo criticato l’atteggiamento di Gentile, così come quello di altri. Molti se la prendono, ma i miei sono consigli paterni. Poi se non mi salutano più, pazienza: la notte dormo lo stesso».

Che cosa manca all’Italia rispetto a quella vincente che ha allenato lei?
«Io avevo in campo e in panchina giocatori veri. Oggi invece produciamo pochi cestisti di alto livello. In Serie A gli italiani trovano pochissimo spazio e se non giochi non progredisci. Tra i giovani mi piacciono Tonut, che è anche più forte del padre, e Fontecchio».

Chi deve essere per lei un allenatore?
«Io mi sono sempre sentito un educatore. Ho sempre cercato di insegnare qualcosa, anche al più forte italiano di sempre: Dino Meneghin. Per me l’allenatore è come uno scultore che modella la creta per farne una statua. Da un gruppo anonimo, che può essere la gente che aspetta l’autobus, deve venir fuori una squadra dove tutti si aiutano a vicenda. Ero un duro, volevo che i miei giocatori fossero consapevoli che “le vittorie non le prepari ce l’hai già dentro”. Tra i coach italiani di oggi stimo molto anche Messina che avrà un futuro da capo allenatore anche negli Stati Uniti».

Segue ancora l’Nba?
«Certo. E anche il campionato universitario da cui si apprende molto. Sono andato negli Usa 108 volte per studiare e vedere giocatori. Ho ammirato la serietà di Bill Russell e mi ha impressionato la voglia di vincere di Michael Jordan, il più grande di tutti i tempi: l’ho visto spesso in allenamento, caricava i compagni come in una partita».

Lei ha vinto tanto, non deve essere facile indicare il successo più bello.
«Sì, se guardo indietro al bambino ferito alla mano devo dire che ho realizzato tutti i sogni. Ma il giorno più bello della mia vita è stato quello del matrimonio. Sono sposato da 55 anni, più i 5 di fidanzamento… Direi un record di questi tempi... Mia moglie mi è stata sempre vicino sebbene spesso ero in giro per il mondo. Abbiamo sofferto molto per l’unica figlia che abbiamo avuto, scomparsa a dieci anni per una malattia incurabile. La fede mi ha dato una grande forza».

È credente?
«Sì vengo da una famiglia cattolica con una fede forte e genuina. Papà era l’ultimo di undici figli e di questi un fratello è diventato prete e una sorella suora di clausura. Vado in chiesa e prego mattina e sera perché ci credo veramente. L’ho sempre fatto anche durante la mia carriera. Non ho mai pregato però Dio per farmi vincere una partita a quella ci pensavo io…».

Come vorrebbe essere ricordato un giorno?
«Solo come un buon allenatore».

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