lunedì 18 giugno 2012
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Si chiamava Gabrielle Bossis. Era, negli ultimi tempi della sua esistenza terrena, una signorina di provincia, abbastanza anziana in quanto a età (era nata nel 1874), ma di cui tutti i testimoni sono concordi nel dire che aveva saputo conservare una straordinaria giovinezza di cuore e di comportamento. In principio, abitava a Nantes o in qualche paese vicino alle rive della Loira. In principio, poiché la sua vita era stata abbastanza errabonda, per la ragione più inattesa. Cresciuta in un ambiente della buona borghesia (suo padre, come ci si vantava in tempi felici, non aveva mai svolto altra professione che quella del «proprietario»), Gabrielle Bossis, ultima di quattro figli, era stata per lungo tempo una fanciulla timida, nascosta, silenziosa, che si trovava più spesso a meditare negli angoli nascosti che a giocare con gli altri. Cominciava, già allora, andando a tentoni, la grande esperienza che doveva coronare la sua vita? In ogni caso, vi fu una qualche ragione per rifiutare tutte le proposte di matrimonio: non è proibito pensare che questa ragione fosse di ordine infinitamente interiore. Si dice anche che possedesse diversi doni per quelle arti coltivate per diletto, alle quali le nostre nonne si applicavano: ricamo, pittura, miniatura, musica e anche, il che è raro, scultura. Tutto ciò comunque non va al di là del livello di numerose ragazze "bene" degli inizi del nostro secolo, negli ambienti tradizionalisti delle nostre province. Il caso la condusse a scoprire in sé una nuova fibra; quella di autrice teatrale. Grazie a qualche patrocinio dell’Anjou, scrisse una di quelle commedie sia di bon ton che di morale perfetta, delle quali è di moda sorridere, ma che non sono così facili da ideare. Coronato di successo questo tentativo, ne scrisse altre, molte altre, e tutte catturarono la calorosa amicizia del pubblico sempre più numeroso. La loro notorietà uscì dai limiti della sua provincia natale e Gabrielle Bossis stessa, lasciando Nantes e i suoi dintorni, andò a rappresentare le sue opere in numerose città della Francia, poi in diversi Paesi stranieri, Belgio, Italia, anche Marocco, Canada e persino Palestina! Il gentile demone della scienza dei patrocini aveva fatto di questa provinciale una gran viaggiatrice. È in simili condizioni che perseguì la sua esperienza interiore. Vengono in mente le famose parole di Bergson: «I grandi mistici sono stati generalmente uomini e donne d’azione, con un superiore buon senso». Esse si applicano perfettamente a Gabrielle Bossis, perché, rappresentando i suoi atti unici, da Kairouan alle Montagne Rocciose, viveva una vita spirituale straordinariamente intensa: come i veri mistici, avrebbe potuto pronunciare la famosa parola di san Paolo: «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me».
Devo confessarlo? Questa esistenza così perfettamente condivisa tra una faccia donata al prossimo, sorridente, dedita a distrarre gli altri, e un’altra faccia consacrata alla contemplazione, mi tocca profondamente. Certamente, ammiriamo come si deve il mistico che si rinchiude in una cella e persegue sotto la cocolla monacale un’esperienza più ardua di tutte. Ma infine, i religiosi, le religiose, per trovare Dio, hanno scelto di eliminare dalla loro via tutti gli ostacoli, ahimè innumerevoli, che il mondo mette sulla nostra. Un uomo, una donna che, vivendo umanamente come noi, in condizioni simili a quelle che conosciamo, arriva ad elevarsi in alto verso la cima inaccessibile in cui Dio si rivela ai suoi eletti, ci riempie ancor più di ammirazione. Gabrielle Bossis e i due piccoli volumi di Lui e io sono, senza alcun dubbio, il resoconto, quasi la stenografia, di quel che lei ricevette in un faccia a faccia sublime con Cristo. Simili diari intimi non sono rari e la nostra epoca ne ha visti un buon numero: alcuni molto straordinari, come quello di Lucie Christine, quello di suor Josepha Menendez, quello di Elisabeth Leseur così commovente nella sua semplicità, e quelle pagine che furono riunite sotto il titolo di Cum clamore valido. La famosa autobiografia della cara piccola suor Teresa di Lisieux corona quest’insieme come un diadema. Nessuno di questi scritti lascia indifferente un cristiano. Il dialogo di un’anima con Dio è unico ed esemplare; per ognuno di coloro che ne hanno il beneficio, esso è esclusivo e non si rivolge che all’intimo dell’essere, ma ognuno di coloro che ne leggono le frasi può sentirne l’eco nel proprio cuore. I testi di Gabrielle Bossis si presentano come parole di Gesù stesso, sentite dalla mistica e scritte di getto sulla carta. In quale misura bisogna ammettere che fossero vere e che Cristo stesso si sia degnato di parlare a questa donna del nostro tempo? Capitò alla beneficiaria di avere dubbi e più volte si domandò se non fosse la sua immaginazione o il suo orgoglio che la illudevano. Al che la voce interiore le rispondeva con un’ammirevole saggezza: «Dubiti che sia Io? Fa’ come se fosse vero». O ancora: «Ma quand’anche queste parole uscissero dal tuo umano naturale, non sono Io ad aver creato questo naturale? Non devi riportare tutto a Me?». Veramente questa è la migliore di tutte le risposte. Ed è ciò che fa un’eccellente impressione al lettore di questi testi, a chi prende in considerazione quest’esperienza. Di Gabrielle Bossis non si è mai detto che abbia avuto visioni, estasi, manifestazioni straordinarie, non è stata né veggente, né stigmatizzata. In apparenza nulla la distingueva da altre donne, un’amabile e anziana signorina che amava la giovinezza, danzava e recitava sulle scene, e sapeva essere sorridente con tutti e tuttavia, al contempo, le parole che sentiva nel più profondo di se stessa risuonavano del suono della verità soprannaturale più alta – un’autentica eco di Cristo. È proprio questa l’impressione che si prova leggendo Lui e io: come dicevano i cristiani dei primi tempi vi si respira «il buon profumo di Cristo»; nulla che violi la natura umana o la costringa al di là delle sue forze. Un richiamo ripetuto, certamente fervente, alla disciplina interiore, all’ascesi, allo sforzo di sé su di sé, ma che resta profondamente umano. Il secondo volume soprattutto, in cui la mistica ha superato i primi ostacoli e si è avvicinata a Dio, dà un suono di pienezza intimo e gioioso, di serenità nell’amore che, in molti punti, l’assimila ai più autentici capolavori della letteratura spirituale. L’abbé Brémond ne andò matto. Che Cristo, in persona, abbia veramente parlato a quest’anima, non sta al semplice lettore dirlo: ma una cosa è sicura, ed è che quest’anima ha vissuto in Lui e ci riverbera un po’ della sua luce.
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