mercoledì 8 aprile 2015
​L'ex capitano della Juventus a 69 anni si candida a sindaco a Moncalieri.
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«Ha trascinato, ha guidato, ha sedotto le plebi con la sua plebea forza di cuore, di carattere, di polpaccio. Un uomo vero nel cuore del gioco e della squadra nei momenti impervi della fatica». È il ritratto fraterno che il poeta irregolare di “Tuttosport”, Vladimiro Caminiti, dedicò, all’impronta, al suo “idolo” e concittadino (palermitano), Giuseppe Furino. Grazie all’eponimoCamin, il Beppe juventino rimarrà in eterno Furiafurinfuretto. Una furia in mezzo al campo. Mediano da «quattro polmoni» («E con due cuori», secondo Giampiero Boniperti), come il numero stampato sulla schiena zebrata di chi, assistito sempre da Caminiti, ha sintetizzato così il senso di appartenenza alla “Vecchia Signora”: «La Juventus è una porta aperta, non si sa perché si entra, ma prima o poi si entra». Furino da quel portone c’è entrato da timido cadetto di ritorno a 23 anni – nel 1969 – e ne è uscito («Giocando in tutti i ruoli, e indossando tutte le maglie, tranne l’1 del portiere e il 9») da capitano nell’84. Quindici anni di militanza furiosa. Ha vinto otto scudetti, record insuperato. «Ma sarei contento se la Juve lo battesse presto. Buffon sta per vincere il sesto scudetto (il quarto di fila), magari ce la fa...». Fedeltà alla maglia, come quella di papà Giovanni alla fiamma della Guardia di Finanza; con mamma Giuseppina, quando il Beppe aveva dodici anni, trasferì la famiglia da Palermo a Torino. Via dalla Sicilia, dove nonno Peppino era stato sindaco dell’isola di Ustica. E adesso, a sorpresa, nella sua Moncalieri (città natale del presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino), per le prossime comunali, il Beppe scende di nuovo in campo. Elezioni a maggio: Furino, che fa? Prova a vincere il suo nono campionato? «Magari, sarebbe record su record – ride di gusto –. Sono un repubblicano per Dna famigliare, ma a 69 anni mi ritengo un apartitico. Convinto dagli amici, abbiamo messo in piedi una bella squadra (lista civica “Alleanza per Moncalieri”) per vedere se è ancora possibile in questo Paese che un gruppo di buoni cittadini, alla prima esperienza in politica, possa far cambiare marcia a una città che è la sesta del Piemonte». Pensa che la voteranno anche i tifosi del Toro? «Chissà... A Moncalieri abitano gli ex Toro Cereser e Rampanti, che ha fatto l’assessore allo Sport. Che derby contro di loro! In campo battaglie, fuori massimo rispetto per uomini veri come Claudio Sala, Renato Zaccarelli e Giorgio Ferrini. Giorgio era il mio alter ego in granata: il mio centrocampo ideale era Bulgarelli- Furino-Ferrini». Ma uno con la sua tempra grintosa prima di buttarsi in politica perché non ha fatto l’allenatore? «È stato un atto di presunzione tremenda. Nonostante la Juve mi sollecitasse a farlo, non mi presentai al corso allenatori di Coverciano. Così ho virato sul mestiere che faccio tuttora, l’assicuratore». È stato una garanzia anche come responsabile del settore giovanile bianconero, dagli anni 90 alla vigilia di Calciopoli. Come ha vissuto quel periodo dello scandalo? «Molto male. Continuo a pensare che la Juventus abbia subìto una porcheria. Se ci fosse stato ancora l’Avvocato e suo fratello Umberto Agnelli non sarebbe mai successo uno tsunami del genere. La squadra del 2006 era una potenza mondiale: le vittorie, gli scudetti se li sono sudati sul campo, come ha sempre fatto il sottoscritto». Ha parlato di Nazionale, ma come mai la “Furia bianconera” ha collezionato solo tre presenze in azzurro? «Ho giocato uno spezzone contro l’Uruguay ai Mondiali di Messico ’70. Poi con la Turchia a Istanbul, nel ’73, vincemmo e alla fine il ct Valcareggi mi disse: “Ho trovato il mediano della Nazionale”... Non mi ha più chiamato. Bearzot? Potevo andare in Argentina nel ’78, ma aveva scelto Benetti e il mio sogno azzurro è finito lì». Un sogno sfumato, come la Coppa dei Campioni dell’83: finale di Atene persa con l’Amburgo, palla avvelenata di Magath. «Ho assistito, soffrendo, dalla panchina, ma Trapattoni si pentì: “Beppe, avrei dovuto farti entrare”, mi confessò. Grande il Trap, un martello pneumatico. Ma quella Juve aveva bisogno di poche parole, scendeva in campo sapendo che avrebbe vinto. Forse, con tutti quei campioni italiani, con la genialità di Platini, si poteva e si doveva portare a casa qualche Coppa in più...». È lo stesso rimpianto del ct Antonio Conte nei tre anni che è stato alla guida della Juve. Conte da giocatore era un “Furino”, concorda? «Sì, siamo molto simili, per generosità e senso tattico. Ma – attenzione – anche per tecnica. Antonio però segnava più gol di me. La Juve di Allegri continua a vincere anche grazie al gran lavoro fatto da Conte che ha scelto la Nazionale, ma io lo vedo meglio come allenatore di club». Con Andrea Agnelli si dice che sia tornato lo “stile Juventus”. «Andrea Agnelli ha ricreato una dirigenza organizzata come ai tempi di Boniperti presidente, che con noi ragionava da calciatore e poi agiva da stratega sopraffino. L’Avvocato mi telefonò una volta sola per rassicurarmi su un articolo in cui dichiarava: “È inutile avere Platini, se il gioco passa attraverso i piedi di Furino”. Il giorno dopo mi tirò giù dal letto per dirmi: “Furino, guardi che non ho mai detto una cosa del genere”». Invece a voi della Juve l’Italia antibianconera ha sempre detto e dato dei «ladri!». «Sono figlio di meridionali e in campo da ragazzino mi diedero del “ napuli”, che all’epoca era l’equivalente dello “sporco negro” con cui ora gli ignoranti insultano gli extracomunitari, fuori e dentro gli stadi. A quell’insulto risposi con un cazzotto sul muso... Io e i miei compagni eravamo allenati a sentirci dire il peggio possibile, ma sul campo abbiamo sempre reagito alla grande e dimostrato di essere i più forti». E della sudditanza psicologica degli arbitri nei confronti della Juve? «È una vecchia barzelletta che non fa neanche ridere. Per quanto mi riguarda io avevo un paio di arbitri, a cominciare da Menicucci, che mi ammonivano sistematicamente. Ho giocato duro, ma sempre pulito e nel rispetto delle regole, come tutta la Juve». Accennava agli extracomunitari. Nel nostro campionato è scattato l’allarme “troppi stranieri”: cosa ne pensa? «Che è una realtà, e sarà dura cambiarla perché vuol dire interrompere il flusso degli interessi economici in ballo. La juventinità è sicuramente legata all’italianità. Io vado fiero del mio passato di giocatore prodotto dal settore giovanile, con Bettega e Causio. Tre su undici. E il mio ultimo successo è stato selezionare Marchisio, Giovinco e De Ceglie. Il futuro sarà anche nella capacità di reperire talenti sul territorio». Cosa non le piace del calcio odierno? «Si gioca troppo e poi in Nazionale vedi un Bonucci che con la Bulgaria commette un errore da principiante, principalmente per stanchezza... Torniamo almeno a una Serie A a diciotto squadre». L’anno prossimo lei compirà 70 primavere. Tempo di bilanci... «Sono un uomo fortunato. Ho avuto una bella famiglia grazie a mia moglie Irene e nostra figlia Federica – è una vostra collega, caposervizio al settimanale “Gioia” – che ci ha regalato Ludovico. Farà calcio? Gli piace correre, come al nonno...». Se in poche parole dovesse raccontare a Ludovico la favola calcistica di nonno Beppe? «Uno che con il pallone prima che da vivere si è guadagnato il rispetto, già a quattordici anni, quando in una partitella fece il tunnel al suo idolo, Omar Sivori. Giocavo con i calzettoni abbassati e il “10” perché volevo essere Sivori, poi crescendo ho pensato di diventare come Del Sol. Alla fine ho capito che era meglio essere solo Furino. AnziFurinfuriafurettocome voleva il mio amato Camin». 

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