sabato 9 settembre 2017
A Mantova incontro con l'autore di “Galizia” e “Il morto nel bunker”: «L'attuale intolleranza è un rigurgito della rimozione delle responsabilità europea sulla Shoah. Ci sentiamo tutti innocenti»
Lo scrittore austriaco Martin Pollack

Lo scrittore austriaco Martin Pollack

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Per Martin Pollack la storia nascosta d’Europa è, alla lettera, storia di famiglia. «Pollack è il cognome del mio patrigno, che non era nazista, ma era stato compagno di classe di Adolf Hitler a Linz, la città in cui sono cresciuto – racconta –. Mio padre si chiamava Bast ed era un ufficiale della Gestapo. Mio nonno era talmente fedele al Terzo Reich da arruolarsi nelle stesse SS nello stesso anno in cui sono nato io, il 1944, quando la guerra era ormai perduta. Di anni, lui, ne aveva 64». Una genealogia terribile, che lo scrittore austriaco ripercorre con un tono tranquillo, quasi distaccato. «Non mi sono mai sentito colpevole – dice –. Ma ho sviluppato un forte senso di responsabilità, questo sì». Considerato un maestro del reportage narrativo, Pollack è al Festivaletteratura di Mantova per parlare di Paesaggi contaminati e Galizia, i suoi libri pubblicati in Italia (rispettivamente nella traduzione di Melissa Maggioni e Fabio Cremonesi) da Keller, l’editore che ora si appresta a riproporre il durissimo e bellissimo Il morto nel bunker, dedicato alla scoperta dell’identità del padre. «La verità – aggiunge – è che ancora non abbiamo fatto i conti con questa parte del nostro passato».

Qual è l’atteggiamento prevalente?

«La negazione, la pretesa che non sia stata colpa nostra. Finché non si riuscirà a fare chiarezza su questo punto, non sarà possibile immaginare seriamente il futuro. Intendiamoci, quella europea non è soltanto una storia di tenebre, ma proprio per questo va raccontata per intero, senza omissioni o finzioni. Quello dell’Austria è un caso emblematico. La convinzione diffusa è che gli austriaci, di per sé, non abbiano nulla da rimproverarsi. La colpa sarebbe tutta delle belve venute dalla Germania. Non è affatto così. Se guardiamo le fotografie di Vienna all’indomani dell’Anschluss (annessione, ndr) nazista, ci accorgiamo che gli ebrei venivano umiliati davanti a persone che non avevano nulla di mostruoso, un pubblico composto di spettatori dall’aspetto più che presentabile, addirittura raccomandabile. Anche mio padre, da quello che ho potuto appurare, era considerato un uomo molto per bene».

Gli attuali rigurgiti di intolleranza derivano anche da questa rimozione?

«Temo di sì. Le faccio un esempio concreto. Dello sterminio dei rom durante la Seconda guerra mondiale si parla pochissimo. A Stegersbach, una cittadina austriaca dove furono uccisi moltissimi nomadi, non c’è un monumento né una lapide che commemori quella tragedia. Ho provato a chiederne il motivo al sindaco, che si è dimostrato piuttosto sorpreso: nessuno ha mai fatto richiesta, si è giustificato, e poi le vittime non erano del posto. Nella stessa Stegersbach oggi è attivo un centro per rifugiati. E le reazioni, per quanto incredibile, sono identiche: non è gente di qua, perché non restano in Africa, come mai non se ne occupa qualcun altro...».

Un caso come quello della Galizia potrebbe ripetersi oggi?

«Intanto è accaduto e ancora non ne siamo abbastanza consapevoli. Ultimamente la Galizia è diventata una meta turistica molto popolare, ma chi la visita non è per niente disposto a confrontarsi con l’evidenza storica. Come se nessuno fosse colpevole dell’intera cancellazione di quella nazione della Mitteleuropa, con tutta la sua ricchezza di popoli, lingue e tradizioni. Mi è capitato di incontrare il figlio del governatore dell’epoca e di sentirmi ripetere che no, suo padre non era coinvolto, anzi: aveva cercato di fare quanto in suo potere per salvare gli ebrei. Che però sono stati spazzati via tutti, dal primo all’ultimo».

Ma dell’eredità culturale dell’Europa non resta davvero nulla?

«Non sto dicendo questo. Ma non possiamo accontentarci di rivendicare l’importanza del pensiero filosofico o delle creazioni artistiche, non possiamo appellarci all’invenzione della democrazia senza ammettere che questa è anche stata la culla dei totalitarismi e il teatro dell’Olocausto. Quanto alla libertà di parola, è un nobile principio, ma non sempre è applicato. In Polonia la mia ricostruzione della Shoah non è gradita e i miei libri, di conseguenza, sono messi al bando».

Perché si serve del reportage narrativo?

«Forse perché, pur avendo una formazione da storico, mi trovo a raccontare vicende che mi toccano molto da vicino. Se penso alla mia famiglia, mi sembra che in fondo ci sia poco da inventare».

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