domenica 2 luglio 2017
Il cantautore si rilegge in chiave jazz il suo repertorio: «Scrissi “Gigi” in mezzo pomeriggio con la sensazione di aver fatto qualcosa di importante. Rifarei una canzone per il Telefono Azzurro»
Fabio Concato

Fabio Concato

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È straordinario, Fabio Concato, quando nel bel mezzo della nostra intervista dedicata ai suoi quarant’anni di musica e al suo magnifico album Gigi, canzoni da ricordare rilette in chiave jazz con il Paolo Di Sabatino Trio, si ricorda di possedere - fra le tante - la cifra del cabarettista spiazzante ed abrasivo. E dunque, alla domanda: quanto è cambiata la discografia in questi quarant’anni?, serissimo risponde: «C’è ancora? Ma guardi che non c’è più la discografia, sono uomini che fan di conto ma non girano cantine, locali, almeno YouTube… Stanno in piedi distribuendo grandi repertori e pace. A me dissero, al mio primo disco: farai successo fra sei, sette anni. Serve tempo, bisogna sviluppare il linguaggio e crescere. E Domenica bestiale arrivò puntuale alla scadenza: oggi non investono però hanno la logica del tutto subito… E si vede».

Così parlò Fabio Concato, nel 2017 produttore di se stesso e fra i pochi artisti abbastanza intelligenti da aver compreso la bellezza, oltre che la necessità, di far vivere le proprie intuizioni spostandosi verso la gente, in dimensioni più piccole di quelle cui ci si era abituati negli anni d’oro «e che però mi fanno lavorare di più, sono sempre in tour…». E non c’è poi tanto da ridere, alle sue parole. Perché ha ragione. Concato, festeggia 40 anni di musica intitolando un disco alla canzone dedicata a papà Gigi, uomo che Cerri definisce un «maestro» e che di Jannacci fu maestro.

Qual è stata la lezione più bella di papà?

«Mi ha reso facile avvicinarmi alla musica vera. Negli anni Cinquanta mi faceva ascoltare cose che hanno condizionato il mio gusto in senso bello: Gerry Mulligan, per dirne una. Lui ascoltava grande musica e questa è stata la mia fortuna. Poi gli ho rubato accordi, armonie… e faceva il rappresentante di occhiali, purtroppo, pur essendo un vero talento».

Quali sono stati i momenti più belli e quali i peggiori di quarant’anni di musica?

«Momenti belli parecchi, ricordo soprattutto la scrittura del pezzo Gigi per Giannutri nell’89: la scrissi in mezzo pomeriggio e mezza sera con la sensazione di aver fatto qualcosa di importante che anche fosse stato solo per me andava bene. Invece è un brano che è rimasto, è la mia canzone più vera e quella che più mi inorgoglisce. I momenti peggiori non mi vengono in mente, delusioni sì ma nulla da rimuovere. Sono fortunato, senza fare tv lavoro bene».

Lei iniziò da cantautore politico, molto schierato anche se pochi lo sanno: fosse andato avanti su quella strada oggi sarebbe più protetto dai critici?

«Sa, questo non me lo sono mai chiesto... Non so. Ma non credo, penso che chi mi vuol bene l’avrebbe fatto ugualmente. A volte si sconta il garbo, semmai: e magari mi spiace non aver dato di più a chi mi ama, però non scrivo tanto, e non scrivo di continuo».

Come si fa a conciliare canzone d’autore e jazz?

«Ah, non l’ho capito… Mi dicono che il mio repertorio si presta a tale rivestimento. In questo nuovo disco ho persino scelto brani meno fortunati, È festa, Stazione Nord, Buonanotte a te, La mia macchina, Quando arriverà. E li abbiamo incisi come dal vivo, che non è cosa facile facendo jazz».

Cosa le dà il piano di Paolo Di Sabatino?

«È un artista caldo, mette gioia sopra o sotto il canto abbinandovi armonie pazzesche. Ha un taglio molto mediterraneo, ma con poesia».

Non ha mai pensato a cantare anche standard jazz?

«Sì, ci ho pensato, anzi: volevo prendere Jobim, Veloso, Buarque, Gil e tradurli in italiano in modo letterale. Sarebbe un’operazione divulgativa, la gente coglie il bello se lo ascolta: il problema è che non ci sono più traduttori-poeti come Bardotti».

La sua attività di discografico di sé funziona bene?

«I dischetti li vendiamo, specie ai concerti ma anche in digitale. Pure il cd di omaggio ai miei autori preferiti come Jannacci o Endrigo è andato bene, ma del resto funzionano ancora. Gabbani funzionerà, fra quarant’anni? Glielo auguro, sarebbe bello».

Cosa la spinge a faticare tanto per nuovi dischi?

«Ho paura di star fermo. Finché sarò in salute andrà così, penso… Continuo però col volontariato, fra un concerto e l’altro, e non escludo di fare un altro progetto come la canzone per Telefono Azzurro dell’88. Sa, la musica permette tanto e io stesso imparai molto: fu un bel modo di aiutare gli altri».

Ma Fabio Concato scrive ancora canzoni nuove?

«L’esigenza c’è. Coi miei tempi, ma questa non è una novità. Sto mettendo via delle cose, penso di aver ancora molto da dire e lo voglio fare non per paure tipo l’essere dimenticato o tenere vivo il mio “personaggio”: mai avute, figurarsi a 64 anni».

A parte Nino Buonocore però i suoi coetanei insistono a volere Sanremo, clip, hit, duetti coi rapper…

«Nino è bravissimo. Ma cosa scatti in certe teste non lo so e mi sorprende, talune vetrine non servono dopo quarant’anni seri. Sarà il terrore di non avere più prime pagine. Ma che schiavitù, però...».

Fabio Concato a Sanremo dunque mai più?

«L’esclusione del 2012 è stata offensiva, mi dissero (Morandi e Mazzi) che non avevo un pezzo adatto: dunque a Sanremo si deve portare fuffa perché tanto la gente è stupida? Un artista deve fare i conti con la sua coscienza: io se ricapita l’occasione e ci credo, perché no? Certo non sarà su ordinazione, mi daranno ancora del cretino come quando cantai chi perde il lavoro e senz’altro non batterò un chiodo; ma non sarà nemmeno per cantare delle cose inutili».

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