sabato 20 aprile 2019
Le posizioni euroscettiche, rinazionalizzando la politica, non restaurano la sovranità nazionale, anzi espongono alle spinte della globalizzazione. Non bisogna confondere indipendenza con sovranità
Il sovranismo? Ci rende sempre più dipendenti dalla globalizzazione
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«Con la Brexit e l’elezione di Trump, il 2016 ha segnato una svolta più profonda del 1989» quando è caduto il Muro di Berlino, ha scritto Bernard Guetta brillante editorialista di “Le Monde”. In realtà, le cose sono sempre più complesse di come le rappresentiamo e per gli inglesi uscire dall’Europa si sta rivelando più difficile del previsto. È certo però che contro l’Europa soffia un forte vento. È il vento dell’euroscetticismo, anzi degli euroscetticismi, tanti e diversi tra loro.

Per capire a fondo di che si tratta è ora disponibile Euroscepticisms. Resistance and opposition to the European Community/ European Union (Il Mulino, 635 pagine, 42 euro) che ne illustra gli elementi comuni e le specificità nazionali, passando in rassegna tutti i Paesi europei. Lo hanno curato Daniela Preda e Guido Levi dell’Università di Genova, la cui fatica ha prodotto un lavoro di grande valore scientifico e di stringente attualità.

Molte sono le varianti dell’euroscetticismo, un fenomeno in continua evoluzione. C’è chi lo distingue in politico, economico, culturale e chi propone le tipologie di un euroscetticismo “contro” l’Ue; o 'molto critico' verso l’Ue (euroscetticismo nazionalista e conservatore); antiestablishment; di sinistra o neofascista.

L’interpretazione “classica” del fenomeno, avviata venti anni fa da Taggart, Szczerbiak e Mudde, distingueva tra la versione hard e quella soft, tra un’opposizione di fondo all’Unione europea e la manifestazione di preoccupazioni per specifiche politiche della Ue considerate in contrasto con l’interesse nazionale. Ma nel tempo molte cose sono cambiate e le due versioni tendono oggi a confondersi sempre più spesso: quella soft finisce in molti casi per trasformarsi in hard, l’obiezione contro le politiche europee in avversione per le istituzioni europee, eccetera.

Parallelamente a questa evoluzione, gli studiosi sottolineano una crescente prevalenza dei temi simbolico-culturali su quelli economico-sociali: le questioni concrete perdono di importanza e l’anti-europeismo assume una fisionomia sempre meno razionale.

Il volume affronta anche il caso dell’Italia, dove le due principali forze euroscettiche sono oggi al governo, Lega e Movimento 5 Stelle. È partito prima quest’ultimo che, poco interessato alla politica estera, ha sempre manifestato verso l’Ue una posizione incerta, riflessa anche dalla collocazione ondivaga nel Parlamento europeo. Il M5s ha spesso polemizzato contro le politiche europee di austerity giudicandole contrarie agli interessi degli italiani e il suo può essere considerato un euroscetticismo soft, anche se ha lanciato più volte l’ipotesi di un referendum per uscire dall’euro.

Viceversa, la Lega ha mantenuto un atteggiamento filo-europeo, immaginando un’“Europa delle regioni”, fino al 2014 quando Salvini le ha fatto assumere uno euroscetticismo decisamente hard, incentrato non tanto su critiche specifiche alle politiche dell’Ue quanto su un’avversione complessiva nei confronti di quest’ultima. Lo spostamento di consensi dal M5s alla Lega ha anche il significato di un passaggio dalla versione soft a quella hard dell’euroscetticismo.

La miscela tra populismo e sovranismo sta producendo effetti sempre più esplosivi. Il primo proietta verso le istituzioni europee la sua protesta contro élites nazionali indebolite, accusate di essere al servizio dei tecnocrati internazionali (di cui i burocrati di Bruxelles vengono indicati come tipici rappresentanti; il secondo denuncia la colpa dell’Ue per una progressiva riduzione delle sovranità nazionali causata in realtà dalla globalizzazione. Ma li accomuna la ricerca del capro espiatorio, il nemico esterno cui attribuire tutte le colpe. Convergono perciò nella polemica contro l’Ue e nell’avversione verso stranieri, rom e altri nemici “esterni”.

In realtà, la questione di migranti e rifugiati potrebbe essere risolta con una maggiore cooperazione tra gli Stati europei, insomma con un 'di più' di Europa. Ma è proprio quello che populisti e sovranisti non vogliono. Come uscirne? C’è chi vede negli euroscettici soprattutto ritardi culturali (come una sorta di "atavismo" che ci impedisce di immaginare qualcosa di diverso dal vecchio Stato nazionale) o chi immagina ragioni valide ma espresse in modo confuso o distorto. A volte, i federalisti interpretano le polemiche contro l’Europa così com’è quale domanda implicita di un’Europa come dovrebbe essere. L’euroscetticismo insomma sarebbe una protesta, seppure espressa in forma impropria, per la mancata realizzazione degli Stati Uniti d’Europa.

Indubbiamente, il malessere su cui i populisti-sovranisti fanno leva è reale, perché l’erosione della sovranità nazionale è incontestabile. Ma speculare su un malessere reale non equivale ad affrontarne le cause. I leader euroscettici seguono finalità elettorali legate al clima che si respira nei loro Paesi e si curano poco dei problemi internazionali malgrado il mondo sia sempre più interconnesso. Offrono perciò ai perdenti della globalizzazione non una soluzione vera, ma una consolazione illusoria: un’identità comunitaria contrapposta alle istituzioni europee.

Rinazionalizzando la politica, infatti, non restaurano la sovranità nazionale, anzi rafforzano le spinte della globalizzazione a erodere sovranità. Usano l’Europa come bersaglio polemico, ma non vogliono un’Europa diversa o migliore (malgrado l’affinità ideologica, i populisti-sovranisti dei diversi Paesi europei non perseguono obiettivi comuni ma interessi contrapposti). Contribuiscono perciò ad alimentare un’opposizione antieuropeista che è sempre meno fondata su concrete motivazioni economico-sociali e sempre più su elementi simbolico-culturali come l’avversione per gli stranieri.

Se non si affronta apertamente questo problema nelle sue implicazioni profonde, morali, storiche e culturali l’antieuropeismo crescerà ancora. Gli Stati nazionali europei non sono in grado da soli di fronteggiare le sfide della globalizzazione. Senza l’Ue, i singoli Paesi si troverebbero davanti a difficoltà insuperabili. Come ha chiarito recentemente Mario Draghi non bisogna confondere indipendenza e sovranità: cedere quote della prima aiuta a difendere la seconda, l’Unione europea non è un nemico che limita l’indipendenza degli Stati nazionali ma un alleato che ne rafforza la sovranità.

Finora la maggioranza degli europei (e degli italiani) continua a considerare positiva l’appartenenza all’Ue. La percentuale degli abitanti dell’eurozona contraria a lasciare l’euro è ancora più alta: quando ragionano sui loro interessi concreti, gli europei hanno meno dubbi. Ma, come si è detto, gli argomenti dell’antieuropeismo sono sempre più di tipo simbolico-culturale. Come dice Paolo Rumiz - autore di Il filo infinito, scritto al termine di un lungo pellegrinaggio nei monasteri benedettini - c’è bisogno di una narrazione all’altezza non solo di ciò che l’Europa è stata in passato, ma anche di ciò che è anche oggi questa grande costruzione comune.

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