sabato 11 giugno 2011
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Se l’Unità d’Italia si potesse colorare porterebbe il rosa e l’oro. Rosa in onore di tutte le donne che fanno sport, a qualsiasi livello, e oro per le mille vittorie che il gentil sesso ci ha regalato in questi 150 anni. Donne e sport è il tema di una mostra con le lacrime, i sorrisi e le emozioni delle azzurre. Nell’atletica indimenticabile Ondina Valla, prima italiana a vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi. Trionfò negli 80 metri a ostacoli ai Giochi di Berlino del 1936, con tanto di record mondiale. Diventò un simbolo sportivo del regime fascista, quello della “sana e robusta costituzione”. Chi ha aperto la strada in epoca più recente è stata Paola Pigni, mezzofondista bronzo a Monaco ’72. Considerata una marziana con gli allenamenti nelle nebbiose serate milanesi, al campo frequentato da soli uomini. Decisamente proiettata nel futuro. Gabriella Dorio ha spostato i confini dell’atletica azzurra un po’ più avanti. La sua medaglia d’oro nei 1500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles ’84 è preziosa e luminosa come poche. E ancora regge il suo primato italiano negli 800.Gabriella, che cosa è cambiato nello sport femminile dalla sua epoca?«La mentalità. Nella mia stessa famiglia non volevano che io corressi. Impensabile che potessi andare in giro per il mondo da sola. Mio fratello era libero di farlo, è dovuto intervenire il parroco del paese e il professore di ginnastica per convincere i miei. Così ho vinto la mia prima battaglia».In pista le donne venivano discriminate?«Ci guardavano incuriositi. Nelle gare domenicali con altre amiche eravamo costrette a nasconderci prima del via e partire qualche minuto dopo. Ci avrebbero bloccato, guardato, scoraggiato. Poi chiaramente in gara sorpassavamo tanti uomini e ci fischiavano alle spalle. Era inusuale all’epoca vedere donne che correvano».Che cosa fa oggi Gabriella Dorio?«Vivo nello sport e nell’atletica. Con mio marito gestisco una società sportiva a Bassano e lavoro nelle scuole con il progetto ormai decennale “Gioca Atletica” che riesce a far correre ogni anno centinaia di bambini che imparano la mentalità dello sport».Ha anche un importante ruolo con la federazione.«Sono tutor di un gruppo di giovani promettenti nell’età più critica, quella adolescenziale. Ci sono tanti problemi: scuola, allenatore, famiglie. Ho un ruolo “motivazionale”. Li aiuto a concentrarsi. Cerchiamo di farli diventare veri atleti professionisti».La sua carriera è stata spezzata dalla maternità, sono tutelate le donne?«Oggi direi di sì, nell’85, quando ho avuto la mia prima figlia, per niente. Anzi il mondo sportivo mi si è ritorto contro. Era l’anno più prezioso, quello post olimpico in cui avrei dovuto far fruttare anche economicamente la medaglia d’oro olimpica».Invece ha ascoltato il cuore?«Ho seguito il mio sogno di donna: avere una famiglia e non ho aspettato. L’obiettivo di sportiva era stato esaudito con l’oro di Los Angeles. La federazione e Primo Nebiolo non hanno apprezzato».Un’atleta può essere anche mamma e mandare avanti una famiglia?«Io ci sono riuscita grazie a mio marito. Mi ha molto aiutata quando è nata mia figlia. Mi permetteva di allenarmi. Ricordo ancora la prima trasferta, la piccola aveva sei mesi e siamo andati in Portogallo a gareggiare tra pappe e pannolini».Le donne hanno fatto tante conquiste nello sport.«Il bello deve ancora venire. Non abbiamo ancora compreso pienamente quanto siamo forti e determinate. Quando lo faremo, sposteremo molto più avanti i nostri traguardi. Rispetto agli uomini siamo più forti di carattere, sappiamo resistere agli sforzi, sopportiamo di più il dolore».Donne e doping l’ha vissuto in prima persona?«Negli anni ’70 e ’80 come avversarie c’erano ragazze che avevano barba e baffi. Soprattutto quelle dell’Est. Era praticamente dichiarato. Mandavano avanti me a fare i controlli perché sapevano che ero pulita e così potevano giustificare il loro operato».Quale atleta ha ammirato?«Non ho mai avuto idoli. Penso alle ragazze che seguo: Alessia Trost, è in cima al mondo tra le giovani del salto in alto, e la marciatrice Anna Clemente. Spero solo capiscano che le emozioni vissute in una gara di atletica si ricordano per tutta la vita».
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