venerdì 11 febbraio 2022
Palazzo Braschi celebra il pittore della finis Austriae dalle origini alla Secessione fino all’ultimo dipinto rimasto incompiuto. Ma sul suo rapporto con l’Italia il discorso si fa fragile
Klimt, “Giuditta I” (particolare)

Klimt, “Giuditta I” (particolare) - © Belvedere, Vienna

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In un inverno romano difficile per musei e mostre, l’esposizione dedicata a “Klimt. La Secessione e l’Italia” a Palazzo Braschi (fino al 27 marzo) ha costituito una felice eccezione, complice certamente il richiamo di un nome ormai ampiamente filtrato anche tra le fasce di un pubblico non specialista. Il rischio, piuttosto frequente, di mostre di questo tipo è che però lascino deluso lo spettatore più smaliziato. Non è per fortuna, o almeno del tutto, il caso di questa mostra, realizzata in collaborazione con il Belvedere Museum di Vienna e la Klimt Foundation, e curata da Franz Smola, Maria Vittoria Marini Clarelli e Sandra Tretter. La mostra offre un ritratto completo dell’artista viennese, scomparso a soli 55 anni nel febbraio 1918, giusto in tempo per evitare di vedere l’implosione della civiltà mitteleuropea di cui è stato uno dei maggiori esponenti. Di questo mondo, così diverso dai panorami culturali elaborati a Parigi ma altrettanto moderno, Klimt ha registrato icasticamente i languori, le tensioni, la complessità come forse soltanto Mahler in musica. I pezzi sono distribuiti lungo tutta la sua carriera, a partire dalle opere giovanili realizzate con il fratello Ernst e Franz Matsch, riuniti nella Künstler-Compagnie, equipe specializzata nel decorare pareti e soffitti, in particolare per i teatri (una fase non certamente paragonabile con gli esiti della maturità ma importante per capire l’attitudine di Klimt alla pittura murale e alla scala della grande decorazione) al virtuosismo “fotografico” del Ritratto di signora del 1894, seguono l’artista nella fondazione della Secessione e l’evoluzione di un linguaggio che somma espressionismo, preziosismi materici e stilizzazione, per approdare alla libertà e alla accesa sensualità del colore degli anni Dieci. In mostra per la prima volta in Italia anche l’ultimo incompiuto dipinto, La sposa, ispirato a una novella di Schnitzler, opera dall’intricata tessitura onirica e testimonianza della centralità della dimensione erotica tanto nell’opera di Klimt quanto nella cultura viennese di quegli anni. Non mancano opere iconiche, generalmente inserite in un contesto più ampio, come la Giuditta I, fusione di eros e thanathos, accompagnata da una selezione di lavori tra area tedesca e italiana che ruotano intorno a desiderio e sessualità, tema chiave della stagione simbolista, o i ritratti femminili, come quello di Amalie Zuckerkandl, di Johanna Staude o quello di signora, divenuto celebre per il furto e il fortunoso ritrovamento, della Galleria Ricci Oddi di Piacenza. Più in generale i quadri di contorno contribuiscono bene a contestualizzare e insieme rilevare l’eccezionalità dell’opera di Klimt nell’ambito piuttosto variegato della Secessione. Da segnalare l’uso per una volta non esornativo della tecnologia digitale. Attraverso la collaborazione con Google Arts & Culture Lab Team e il Belvedere sono stati ricostruiti i colori dei tre Quadri delle FacoltàLa Medicina, La Giurisprudenza e La Filosofia –, allegorie realizzate da Klimt tra 1899 e 1907 per il soffitto dell’Aula Magna dell’Università di Vienna e rifiutati perché ritenuti scandalosi. Distrutte durante l’ultima guerra, delle tele restano solo fotografie in bianco e nero. L’operazione restituisce la potenza e il fascino di quelli che dobbiamo considerare forse come il vertice di tutta l’opera klimtiana. Più debole invece la parte di mostra dedicata a Klimt e l’Italia. I viaggi del pittore sono documentati da cartoline e lettere, ma è difficile capire quanto la penisola lo abbia influenzato: l’apprezzamento verso i mosaici di Ravenna è probabilmente più il riconoscimento di affinità. Klimt espone poi due volte alla Biennale di Venezia (nel 1899 e soprattutto nel 1910 con una sala personale) e quindi nel 1911 a Roma – città dove nel 1912 nasce una Secessione. Solo il catalogo (Skira) lascia intendere quale fosse la “potenza di fuoco” delle sale klimtiane: vi troviamo molti tra i capolavori più noti dell’artista. Nessuna di quelle opere è presente in mostra a parte Le sorelle, neppure le due in collezioni italiane ( Le tre età della donna alla Gnam e la Giuditta II di Ca’ Pesaro). Una presenza che ebbe un forte contraccolpo, vista la saletta che chiude la mostra con alcuni interessanti pezzi del simbolismo italiano, da Chini a Casorati a Zecchin. La sala ingolosisce ma è insufficiente a tracciare le ricadute del verbo klimtiano in Italia. Ma forse – e torniamo al “peccato originale” di questo tipo di mostre – era difficile sperare di più.

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