giovedì 13 marzo 2014
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In tempi di crisi economica e valoriale, chi regala qualcosa può essere mosso dal desiderio di essere ricambiato, materialmente o con favori. A seconda del retropensiero che lo precede, un dono può essere anche ostentazione di superiorità, tentativo di estorsione, esibizione di uno status sociale. Tutte situazioni che ne annullano l’autenticità. Perché «nessuno è così povero da non avere qualcosa da donare agli altri; ma nessuno, allo stesso tempo, è così ricco da non aver bisogno della gratuità e del dono di altri. Siamo sempre, simultaneamente, datori e riceventi». Lo sottolinea don Roberto Repole, presidente dell’Associazione teologica italiana, nel volume Dono (Rosenberg&Sellier, pagine 126, euro 9,50), che suscita profonde riflessioni sulla condivisione empatica. «Ciò che nel donare si crea e si custodisce è il legame tra persone». La chiave di volta è proprio la reciprocità, contrapposta all’individualismo e a quella «logica del pareggio e dell’interesse» che ha generato la crisi di civiltà?«Sì, certamente. Una certa retorica sul dono (a volte anche cristiana) induce a pensare che esso ci sia solo nel più completo “dis-interesse”. Allo stesso modo, una certa speculazione filosofica rischia di essere troppo vittima del pensiero economico, quando ritiene in modo assoluto che nel dono non ci debba essere mai circolo. In realtà, quando doniamo un sorriso, del cibo, del tempo, abbiamo un chiaro interesse per l’altro in quanto persona capace a sua volta di donare. E non ogni circolo tra dare e ricevere è necessariamente inscrivibile nella logica economica. Anzi, il dono va realmente a buon fine quando tra chi dà e chi riceve si crea uno scambio sano. Si potrebbe dire che una società esiste, in tutte le sue forme, proprio in forza del dono e della buona reciprocità che esso costruisce e rinforza. Cosa che un mondo che non sa vedere altro che il mercato tende a occultare, con un forte impoverimento della nostra umanità. La crisi economica è, più profondamente ancora, una crisi di umanità».Alla logica del pareggio contrappone quella«del disequilibrio, della sovrabbondanza. Quando dono a qualcuno o quando, all’inverso, ricevo un dono da qualcuno si crea una sproporzione»…«Quel che fa sì che la reciprocità del dono sia totalmente diversa da quella economica è il fatto che, mentre nell’economia i conti debbono tornare in pareggio, il dono si realizza solo in forza di un “disequilibrio benefico”. Dare e ricevere un dono fa sì che ci mettiamo personalmente in gioco a partire dalla nostra libertà, generosità, capacità di vedere e amare l’altro. Se poi c’è una reazione ugualmente generosa e libera, da parte di chi il dono lo riceve, nella forma di un grazie, della riconoscenza, di un altro dono... Un incontro “tra persone” che non vedono l’altro pensando a che cosa ci si possa ricavare, ma desiderano apprezzarlo, sostenerlo, permettergli, con il proprio amore generoso, di essere».Anche ricevere un regalo può essere “insopportabile”, perché implica il riconoscimento dell’altro «come persona che offre qualcosa». E, allo stesso tempo, l’ammettere di essere «non sufficiente a me stesso». È questa la “sporgenza” del dono?«Ricevere in modo solo unilaterale può essere umiliante e disumanizzante. Capita così nel caso dei doni, ad esempio, dei Paesi ricchi verso i Paesi poveri, quando ci si disinteressa però della ricerca della giustizia o della possibilità che anche i meno abbienti possano, a loro volta, ritrovare libertà e potenzialità e, perciò, divenire capaci di donare. C’è però un ricevere sano e fondamentale. Abbiamo tutti ricevuto: vita, cure, attenzioni, istruzione, sguardi, amore... Rendersi conto che esistiamo, in ragione di questi molteplici doni, è rintracciare al cuore delle nostre vite la possibilità di “sporgersi” su Colui che ne rappresenta, nel suo essere dono, il fondamento più intimo».La ricerca teologica sta esplorando tematiche come la comunione e la condivisione?«Queste tematiche sono centrali al pensare teologico. E, dal Novecento in poi, ciò è stato abbondantemente riscoperto. Il tema della comunione è particolarmente importante per cogliere la profondità di ciò che rappresenta la Chiesa: luogo in cui si ha accesso alla comunione con Dio, luogo di comunione dei credenti tra loro e con l’umanità. Per questo il fatto che nei rapporti fondamentali della Chiesa si possa respirare la logica della fraternità è essenziale. Pena l’impossibilità di testimoniare un Dio che è generoso e benevolo, che ama ciascuno in modo unico e irripetibile e che permette a ognuno di esprimere e donare se stesso. Un modo insano di vivere nella Chiesa non permette di vedere ed esperire il volto del Dio di Gesù Cristo».Quali dovrebbero essere, a suo parere, le nuove frontiere di una teologia che voglia essere fruibile non solo alla platea degli addetti ai lavori?«Penso che la teologia non possa né debba rinunciare a parlare anzitutto di Gesù Cristo, di Dio, della grandezza dell’uomo e del suo destino, della Chiesa... Insomma, di quei temi che sono, da sempre, la ragione del suo esistere. Temi, peraltro, di cui anche oggi c’è grande sete: per alcuni aspetti – nella crisi di speranza che stiamo attraversando – più che in altri tempi! Il punto è che la teologia non può permettersi il lusso di un linguaggio criptico. E per farlo ha due sentieri da imboccare: essere sempre un servizio al concreto popolo di Dio e alla sua fede vivente; e mantenersi in un dialogo vivo con la cultura del mondo contemporaneo».
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