giovedì 17 settembre 2015
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All’ospedale psichiatrico il momento più critico della giornata, per lui, era il risveglio dopo una notte trascorsa sotto l’effetto dei sonniferi, le ultime medicine di una sfilza mandate giù nelle 24 ore. «Aprivo gli occhi – racconta l’attore Stefano Dionisi nel suo libro – e venivo preso da una malinconia che mi inchiodava al letto, il sudore provocato dai sogni ininterrotti mi bagnava tutto il corpo e quel calore freddo mi faceva tremare sotto le lenzuola». Era come uno stato di “sospensione” che mescolava l’incubo a una realtà di cui ormai aveva smarrito quasi del tutto il senso. È facile, quando si arriva a questa condizione, perdersi ancora di più nei vicoli bui della propria mente. E precipitare nel baratro. Un’esperienza, quella di Dionisi (David di Donatello per il film Farinelli), durata quattordici anni, tra crisi psicotiche, ricoveri in cliniche, terapie, analisi, psicofarmaci. E adesso, uscito dal tortuoso tunnel della follia, con tutto il suo bagaglio di sofferenze, il quarantanovenne attore romano ha descritto in un romanzo-memoir il suo “male oscuro” raccontando il mondo dentro il quale è stato sbalzato all’improvviso e, con esso, gli “strani” personaggi in cui si è imbattuto condividendo con loro degenza e malattia. Il libro s’intitola La barca dei folli (Mondadori, pagine 130, euro 18.00) e fa venire i brividi lungo la schiena.  Non è la prima volta che una celebrità del cinema e della televisione si mette a scrivere ma Dionisi – che ha recitato anche accanto a Mastroianni in Sostiene Pereira ed è stato protagonista di diversi film tra cui La tregua, di Francesco Rosi, Il partigiano Johnny di Guido Chiesa, e di una trentina di fiction televisive di successo – non lo ha fatto con l’intenzione di costruire una grande e colta opera letteraria, farcita di citazioni, e nemmeno un compendio di psichiatria vergato da un ex ospite delle strutture sanitarie nazionali. «L’editore aveva letto una mia intervista su una rivista e mi disse che voleva farci un libro – spiega – rifiutai la proposta di affidare il testo a un ghostwriter e mi misi a tavolino con carta e penna. Ne scaturirono, all’inizio, solo una ventina di pagine che piano piano integrai con i ricordi di persone e situazioni che affioravano dalla mia mente ». Il risultato non è un semplice pamphlet ma un libro-verità scritto con lo stile e la struttura di un romanzo che scorre via lasciando emozioni. Ma qual è la sua storia e come è esplosa la ma-lattia di Stefano Dionisi, rivelatasi infine un disturbo ereditario dovuto al cattivo funzionamento di alcuni geni? «Ero in Spagna dove stavo girando Sant’Antonio di Padova e sono stato male – racconta l’attore – ho avuto un attacco di panico, ho lasciato il set, buttato portafogli e passaporto e sono scappato via, rifugiandomi sul tetto di una casa». Qualcuno chiamò un’ambulanza, ci fu un ricovero coatto in psichiatria. Il primo di una lunga serie. E perché si liberò proprio del portafogli? «Persi le staffe tutto d’un tratto ma c’era qualcosa che covava dentro di me, quello che mi fece crollare fu il successo ottenuto come attore, il fatto di aver guadagnato 300 milioni di lire in due mesi dopo aver sbarcato il lunario per anni facendo il cameriere...».  Da quel momento cominciò il suo calvario: passavano i mesi, si intensificavano le cure, farmacologiche e non, e ogni volta c’era l’illusione di guarire, di vedere la luce. Stefano si credeva quasi fuori dal quel “buco nero” ma poi succedeva qualcosa, la depressione (che, dice lui, può anche uccidere) tornava a rodergli l’anima, tanto da trovarsi punto e a capo. La madre gli è stata sempre vicina, anche nei frangenti più dolorosi. Mentre il padre no. Lo abbandonò quando era ancora un bambino. Soltanto dopo, cominciando a capire l’origine del suo disturbo, Stefano ha recuperato il rapporto con il genitore che non vedeva da anni: lo ha cercato, incontrato e ha infine risolto di fronte a lui quel senso di colpa che gli pesava come un macigno, nel cuore e nel cervello. «Ho sperimentato così l’importanza della famiglia, perché se gli manca il sostegno di un padre e di una madre, delle persone care, un malato psichico non ce la fa a rialzarsi, si emargina sempre di più, viene impasticcato e lasciato solo, non guarisce, diventando anche un costo per la società». Su questo tema Dionisi insiste. È il suo cruccio. «Lo Stato dovrebbe aiutare le famiglie che hanno un congiunto con malattie mentali, perché i farmaci di ultima generazione sono troppo cari, perché la solitudine aumenta la disperazione, peggiora il quadro clinico, e può allontanare i familiari da chi ha già gravi problemi affettivi, che sono quasi sempre l’origine dei disturbi mentali». E la fede, conta? «Di solito ci si appiglia a Dio quando le terapie sembrano non funzionare più e si ha bisogno di alimentare la speranza, io ho chiesto di confessarmi al cappellano dell’ospedale, volevo un rapporto che mi avvicinasse al Mistero...».  Ma chi sono i folli di cui si parla nel titolo del libro? I protagonisti di questa avventura umana con i quali Dionisi ha fraternizzato. A cominciare dal primario dell’ospedale, il “Prof” dagli occhi ghiaccio, «di quel colore così azzurro che rende inespressivo lo sguardo» e dalla sua assistente chiamata “Tacchi a spillo”. Ma ci sono anche Giovanni il Battista che prega ogni notte acquattato ai piedi del letto con il Vangelo in mano, il Furioso che pensa di essere vittima di un complotto. E poi, ancora, Ciuf Ciuf, con la mania dei treni, il Conte, il Pilota che ha combattuto in Iraq, il Toscano, arzille vecchiette, uomini e donne fragili, dannati ma innocenti, morti civili in un inferno di angosce che può non finire mai.
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