lunedì 10 marzo 2014
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Del romanzo rimane solo il titolo. I titoli, anzi. Gli atei oppure I cavalli a San Pietro, che è poi la versione letta da Ignazio Silone nel 1965. «Ne ricevei una forte impressione», fu il suo commento, subito seguito da una lamentazione sullo stato dell’editoria in Italia. L’autore di Fontamara aveva allora 65 anni, la scrittrice che gli aveva sottoposto il manoscritto ne aveva appena compiuti 40. Si chiamava Luce d’Eramo ed era – come Silone anche se diversamente da lui – una “aliena” nel mondo delle belle lettere nostrane. Socialista senza partito lui, e cristiano senza chiesa. Volontaria in una fabbrica nazista lei, e poi deportata nei lager (è la vicenda ripercorsa in Deviazione, il capolavoro autobiografico del 1979), affascinata infine dall’utopia di conciliare Vangelo e marxismo. «Quando è uscita dal Pci?», le domandò Silone a proposito dei Cavalli a San Pietro, nel quale Lucetta, come la chiamavano gli amici, si era immaginata un attentato ai danni del Papa ordito da una “cellula” di comunisti smaniosi di tornare alla fase rivoluzionaria. La donna gli aveva risposto di non aver mai preso la tessera del Partito e Silone, che di purghe ed espulsioni aveva una certa esperienza, era rimasto abbastanza sorpreso.Il romanzo perduto (parzialmente confluito in seguito in un’altra opera della D’Eramo, Ultima luna, del 1993) sta all’origine del rapporto fra i due scrittori ora ricostruito, con grande ampiezza di annotazioni e materiali di prima mano, da Yukari Saito, un’intellettuale giapponese da tempo di casa in Italia: a lei si deve deve la curatela del corposo Ignazio Silone edito da Castelvecchi (pagine 762, euro 39,50). In copertina Luce d’Eramo figura come autrice e la maggior parte del volume, in effetti, è occupata dalla riproposta del suo «saggio critico e guida bibliografica» sull’opera siloniana apparso da Mondadori nel 1971. Un testo all’epoca controverso, sia per il metodo adottato (una sorta di montaggio ragionato dei più rilevanti contributi critici a livello internazionale), sia per la tesi di fondo, secondo la quale la cultura italiana aveva frainteso il Silone romanziere, ignorandone del tutto il valore stilistico e restando invece frastornata da un pregiudizio prettamente ideologico. Con il che si ritorna a Uscita di sicurezza, lo scomodo resoconto autobiografico con cui Silone sanciva la fine della militanza comunista. La lettura di quel libro era stata l’occasione dell’incontro fra Silone e la D’Eramo, fino a quel momento in grande confidenza con Alberto Moravia. Ma nella parabola dello scrittore abruzzese Lucetta avvertiva qualcosa che le assomigliava di più, un’inquietudine e insieme una ricerca di autenticità che furono alla base di un’amicizia durata fino al 1978, anno della morte di Silone. È un itinerario che gli apparati raccolti da Yukari Saito descrivono nel dettaglio, a partire da un’interessante conversazione con Daniella Ambrosino, che della D’Eramo fu allieva e collaboratrice tanto da svolgere un ruolo non trascurabile nella gestazione della monografia su Silone. Insieme con gli altri saggi che la scrittrice dedicò negli anni a quello che può essere considerato – se non un maestro – di sicuro un punto di riferimento irrinunciabile, il libro propone anche per la prima volta il carteggio integrale fra questi due protagonisti del Novecento italiano. Sono in maggioranza lettere di Silone, 64 in tutto, mentre della D’Eramo rimangono soltanto sei minute, a conferma di una propensione al repulisti degli archivi in cui è incappato anche il romanzo sul complotto anti-papale.Il progetto del saggio mondadoriano finisce ben presto per prendere molto spazio in questi scambi epistolari, a volte con indicazioni di ordine pratico (la correzione delle bozze, per esempio, o l’inevasa richiesta di fotografie alla quale allude una delle lettere riprodotte in questa pagina), in altri casi con riflessioni che entrano nel vivo della poetica siloniana. È quello che accade nel messaggio del 21 febbraio 1970, in cui lo scrittore confessa di trovare «temeraria» l’analogia, suggerita dalla D’Eramo, tra il suo alter ego romanzesco, Pietro Spina, e Gesù: «Bisognerebbe tutt’al più presentarla come un’eco della medievale Imitazione di Cristo in termini laici», sostiene. La conferma di un’avventura comune, alla quale la stessa D’Eramo dà voce nell’altra lettera qui presentata: un semplice biglietto di ringraziamento che si trasforma in meditazione sul mistero della Grazia.
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