
Il cantante John De Leo, 54 anni, in tour con i Jazzabilly e il loro album "Tomato peloso" - Roberto Cavalli
«Jazz, rock e rockabilly convivono in questo progetto. Sanremo mi ha reso popolare ma poi ho fatto una scelta: fare musica senza andare in tv. Però, se Bollani mi invita da lui ci vado» La voce dei Quintorigo, riunitisi dopo 25 anni dal brano sanremese “Rospo” si racconta partendo dal nuovo disco, “Tomato peloso” inciso con i Jazzabilly Se cercate, anche negli anfratti più oscuri dell’universo Spotify, potete star certi che tra gli artisti di casa nostra non troverete una voce, unica e inconfondibile, come quella di John De Leo. Romagnolo, di Lugo, a 54 anni quest’ugola cangiante sembra aver attraversato già dieci vite artistiche. Lo ha fatto cantando il maestro che ha nell’anima, Paolo Conte, collaborando alle botteghe di filosofia del cantautorato, Battiato e Fossati e poi con la rara saggezza rapper, Caparezza. Ha letto tanto, da solo e in pubblico, facendogli riscoprire i fari luminosi del nostro ‘900 letterario: Testori, Manganelli, Sciascia, Pasolini… Tutto questo è accaduto dopo la sbornia mediatica che, volente nolente, lo travolse al Festival di Sanremo 1999. Con gli amici di conservatorio, diventati band, i Quintorigo, vince il Premio della critica con il brano Rospo. Un bacio popolare che lo avrebbe voluto trasformare in un principe del pop. Breve stagione sotto i flash e riflettori puntati su quel volto da gatto randagio della musica, tutta. Poi nel 2005, dopo tre album (l’ultimo con De Leo è stato In cattività) come un John frusciante è uscito dal gruppo che ha continuato a guardare a distanza con un misto di sentimenti espressi da un nomignolo: senza di lui li ribattezza i “Quattroquinti”. A 25 anni da Rospo i Quintorigo si sono ritrovati. Una reunion scaturita non dalla nostalgia canaglia postsanremese ma dalla voglia di togliersi appunto qualche rospo in gola e rigettarlo pacificamente lì sul palco e poi sul giradischi. Lì sul piatto adesso gira Tomato peloso. Un progetto di John De Leo con i Jazzabilly - registrato per la Tuk Music di Paolo Fresu - pronto per un minitour che parte lunedì 24 marzo al Paradiso Jazz di Bologna per concludersi il 22 aprile al Blue Note di Milano. Un disco che contempla il jazz di John Coltrane, il rock di Elvis Presley, il rockabilly degli Stray Cats e il blues di Arhur Gunter. Disco - con feat di Fresu e Rita Marcotulli - concepito dalla fusione tra la sua voce e il virtuosismo musicale dei Jazzabilly, il fantastico quintetto composto da De Leo alla voce, Enrico Terragnoli chitarra elettrica, Stefano Senni contrabbasso, Fabio Nobile batteria e percussioni, Franco Naddei sound design.
Nove brani che rapiscono per timbro e arrangiamento, dall’apertura con Blue Suede Shoes di Carl Perkins fino ai gorgheggi di Jazzability con la voce di De Leo in dialogo con il contrabbasso di Senni.
«Proprio in Jazzability abbiamo trovato la quadratura del cerchio tra jazz, rock e rockabilly che era quello che ci eravamo proposti di realizzare con Tomato peloso. Ogni brano in studio l’abbiamo eseguito almeno tre volte e sempre in modo diverso e questo spirito di improvvisazione si comprenderà ancora meglio nei nostri live».
Prima dei live conviene spazzare via quei luoghi comuni che sin qui hanno accompagnato il suo percorso, ovvero: “artista eclettico”, “alternativo” e “voce erede di Demetrio Stratos”.
«Di questo vi sono grato, anche se a distanza di tempo forse quelle sono le etichette meno peggio che potessero appiccicare a uno come me che da sempre cerca di fare musica senza offendere mai l’intelligenza del pubblico».
Un pubblico di nicchia, perché il grande pubblico televisivo lo ha abbandonato da un pezzo.
«È stata una scelta che mi ha fatto sentire libero artisticamente ma certo non paga sul piano economico. E infatti pago di persona, perché la tv sarebbe necessaria un po’ a tutti se si vuole campare solo di musica. Ci andrei in tv ora? Ci andrei se mi chiamassero in quell’isola felice che è Via dei matti n.0 (Rai 3). Anzi approfitto di “Avvenire” per mandare un messaggio a Bollani- sorride divertito: Stefano invitami!»
Intanto la invitiamo a spiegare il significato del titolo del disco, Tomato peloso.
«A differenza di tanti miei lavori precedenti non nasconde nessun mistero filosofico, è semplicemente la castroneria che ha fatto più ridere me e i Jazzabilly una notte di ritorno da un concerto al Blue Note. Mi ha talmente divertito Tomato peloso al punto da stimolarmi a a raffigurarlo. Così dopo decine di anni ho ripreso in mano, matite, pennarelli e colori per illustrare la copertina del disco. Mi svegliavo al mattino e cominciavo a disegnare senza accorgermi che smettevo che ormai si era fatta sera».
Siamo all’alba di una rinascita del rock e le nuove generazioni hanno pensato che l’abbiano inventato I Måneskin sul palco di Sanremo 2021, aprendo di fatto un dibattito generazionale.
«A me sembra banale che si stia parlando di gap generazionale in un mondo come questo in cui le notizie di 100 anni fa ormai le leggi accanto a quelle di oggi. I Måneskin hanno inventato il rock? Se qualche giovane se lo è domandato è perché nessun adulto gli ha spiegato l’esistenza di una cultura musicale che parte dal pop: una musica che abbraccia tutti i generi, jazz compreso che nasce come musica da ballo. Oggi circola la cattiva idea che è bello solo ciò che vende o che abbia 50 milioni di condivisioni in Rete. C’è un mondo ormai che ragiona solo in base a quello che passa su Youtube. In Rete esiste tantissima e bellissima musica, a volte anche originale, il problema è che devi fare archeologia, devi scavare e cercare tanto per trovarla. L’algoritmo di sicuro non premia l’originalità».
La sua “originalità vocale”, altra accezione che usiamo e cancelliamo immediatamente alla Isgrò, suscita interesse anche tra i giovani.
«Ai concerti vengono a sentirmi tanti ragazzi e la frase che più mi gratifica è: “Ha fatto bene mio padre a dirmi di venire”. Oppure: “Bellissimo live, ho comprato il vinile e domani compro il lettore” – sorride - . Mi piace avere questa responsabilità, aprire a dei ragazzi un nuovo orizzonte grazie alla mia musica».
Qui viene fuori la sua vena paterna.
« Ho imparato tanto da mia figlia che sette anni fa ha dato un senso alla mia vita. Osservando lei e i suoi piccoli amici ho capito che si possono esaltare allo stesso modo ascoltando una canzone di Michael Jackson come per il Bolero di Ravel. E questa cosa, se vogliamo semplice, deve far riflettere su quanto l’imprinting dell’ascolto musicale oggi sia sterminato».
Musica senza confini e spesso di denuncia. Non a caso nella copertina di Tomato peloso si legge quel monito sibillino di Stefano Benni: «Non mi accadde nulla che anche tuo non sia stato».
«Quella citazione di Benni è un invito alla responsabilità e alla condivisione, cercare di non smettere mai di mettere in circolo idee, parole, musica… Pasolini che abita i miei pensieri, le mie paturnie e le mie imprecazioni quotidiane ha detto: “L’arte non è elitaria, deve essere di tutti” e per contro ammoniva: “Lo spettatore deve fare fatica davanti all’opera quanto ne ho fatta io per concepirla”. Sono nato nel periodo storico in cui ho respirato che l’arte serve per soverchiare il regime e rompere le catene ideologiche che ci vuole imporre. Nel mio prossimo disco, il terzo da solista, canterò anche questo senso pasoliniano della disperata vitalità che mi permette ancora di dire: oggi sono vivo e posso guardare alle cose belle».