mercoledì 6 marzo 2019
Lettera-testimonianza, del giornalista e amico Dario Ricci, all’alpinista Nardi che da giorni risulta disperso in Pakistan, sulla vetta del Nanga Parbat, insieme con il collega Tom Ballard
«Daniele, amico mio ho il vuoto dentro»
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Un numero strano, davvero troppo lungo sul display dal cellulare; uno squillo che ti becca magari sotto la doccia, o al supermercato, o mentre sei in palestra. Frughi al volo nelle tasche e dall’altra parte ecco una voce in inglese che chiede di poter parlare col «…famous journalist very well appreciated in Pakistan…», e poi una risata, a prenderti in giro e poi subito a ridere insieme a te: «Amico, come staiiii??». Non sono rare queste telefonate, dal campo base a casa, tra me e Daniele Nardi. Anzi, nel 2013, durante la sua prima spedizione al Nanga Parbat, erano quasi quotidiane: lui, alpinista-cronista, che mi raccontava il procedere della missione, i cambiamenti del meteo, della strategia, le riflessioni comuni con i colleghi, i giochi che ogni giorno s’inventava per passare il tempo, in attesa che la montagna concedesse qualche spiraglio per provare a salire. Ed io, a un bel po’ di ore di fuso orario di distanza, ad annotare scrupolosamente, anzi a registrare, quelle chiacchierate e quei racconti. Ne sarebbe nato un libro, spontaneo, sincero e ingenuo, In vetta al mondo, che oggi è un sentiero prezioso per ricordare chi è Daniele e qual è la sua idea della montagna e dell’alpinismo.

Ci siamo conosciuti nell’autunno del 2010, con Daniele, negli studi di Radio24: una mail, un incontro, un’intervista sulla sua prossima spedizione e subito l’idea di scrivere qualcosa insieme, perché mi incuriosiva la storia di quest’alpinista del Centro-Italia che già allora aveva un curriculum di tutto rispetto. Quella spedizione che stava per affrontare, gli avrebbe garantito una delle soddisfazioni più belle della carriera: insieme all’amico Roberto delle Monache, aveva aperto sul Baghirati III una nuova via, che avevano battezzato «Il seme della follia», e che era valsa a entrambi il premio Paolo Consiglio, uno dei riconoscimenti tecnicamente più rilevanti del panorama internazionale. Senza dimenticare i cinque Ottomila conquistati, e l’accreditamento al Piolet d’Or, che è l’Oscar dell’alpinismo, viste le nuove vie aperte sul Farol West, in Pakistan nel 2010 (via battezzata Telegraph Road, perché questo era il successo dei Dire Straits che canticchiava nella testa durante l’ascesa!) e sul Monte Rosa. Il tutto, spesso, tra un diffuso scetticismo, perché è sempre stato difficile guadagnare stima e credibilità per chi, come Daniele, arriva da Sezze, vicino Latina, e si autodefinisce «il primo alpinista nato sotto il Po a essere arrivato in cima all’Everest e al K2», in un mondo affascinante, ma anche conservativo come quello dell’alpinismo.

Un alpinista completo, Daniele, attento, scrupoloso, meticoloso, seppur innamorato di quello “stile alpino”, cioè lo scalare nel modo più leggero, meno invasivo, senza portatori né corde fisse, che per lui è l’essenza stessa del dialogo con la montagna. Un dialogo, questo, sempre rispettoso e consapevole. Al punto tale da rinunciare al concetto stesso di sfida con la Natura: «Il senso della sfida è soprattutto dentro di me, con me stesso, i miei limiti, le mie paure. Più che un duello […] è un dialogo con la materia, la roccia, la montagna, la neve […]ogni passo è una conquista […] Ma è anche vero che ogni passo che mi avvicina alla vetta non sarebbe possibile se la montagna non me lo concedesse. Lassù i rapporti di forza sono chiari». Scriveva così, Daniele, in quelle pagine stampate nell’aprile 2013, e ripubblicate un paio d’anni dopo.

Mai questa sua visione della montagna e del suo essere alpinista è cambiata nel tempo. Basti pensare alla rinuncia di quella tanto desiderata vetta del Nanga Parbat, nell’inverno 2014-15, a qualche centinaio di metri dall’obiettivo, per salvare la vita ad Alì Sadpara, l’alpinista pakistano ora impegnato nelle sue ricerche, così come Alex Txikon, al suo fianco in quei drammatici momenti. Ci arriveranno in cima l’anno dopo Alì e Alex, insieme a Simone Moro (mentre solo un malore fermerà Tamara Lunger a poco dalla cima). Non Daniele, che nel frattempo era già rientrato in Italia. Eppure Sapdara e Txicon quella spedizione proprio con lui l’avevano iniziata. Poi incomprensioni, litigi, e la rottura. Una delusione mai del tutto dimenticata, ma che Daniele aveva saputo trasformare in nuova energia e per i suoi tanti progetti: prima la famiglia, con la moglie Daniela e il figlioletto Mattia, di appena sei mesi; poi il ruolo di ambasciatore dell’Alta Bandiera dei Diritti Umani (un vessillo che insieme avevamo portato sulle cime della Grande Guerra in occasione del Centenario del primo conflitto mondiale); un progetto dedicato alla formazione; e poi ancora la montagna, il Nanga e lo Sperone Mummery.

Non un’ ossessione, quello Sperone, ma l’oggetto di un’infatuazione alpinistica e tecnica, nel nome di Albert Frederick Mummery, colui che nel lontano 1895 aveva tentato di scalare il Nanga passando proprio da quel dito di roccia puntato verso la vetta, trovando invece la morte. Ebbene, credo davvero che nessuno come Daniele conosca quello Sperone e i suoi segreti. In molti, ora, sono prodighi di puntuali analisi sulla pericolosità (mai negata da Daniele) di quel punto specifico del Nanga; avari, tuttavia, furono invece di lodi quando lo stesso Daniele, su quello stesso Sperone, toccò nel 2013 quota 6400 insieme a Elisabeth Revol (giunta poi in vetta lo scorso inverno nella tragica spedizione in cui morì Tomek Mackiewicz, con Daniele fra i più attivi nell’organizzare i soccorsi); oppure quando nel 2015 raggiunse i 6200 m in solitario.

Una contraddizione che suona ancor più dolorosa in queste ore. Momenti, questi, in cui lo stesso dolore ti spinge a sfogliare l’album dei ricordi, dei momenti vissuti insieme. Come quel pomeriggio quando, di ritorno da un’escursione fatta insieme sul Col de Bois, sul Lagazuoi, sui luoghi della Grande Guerra, io disfatto dalla fatica e lui fresco come una rosa, si fermò in baita giusto il tempo per posare lo zaino e scattò su per un sentiero per farsi una corsetta defaticante. Io, spinto dall’orgoglio e dalla voglia di non sfigurare, provai a seguirlo, prima di arrendermi dopo nemmeno un centinaio di metri. «Sei stato bravo! Hai avuto un bel coraggio a provare a starmi dietro!», mi disse abbracciandomi e sorridendomi, al rientro dalla sgambata in quota. Ci provo ancora adesso, amico mio. Ma ho un gran vuoto nel cuore.

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