domenica 4 settembre 2022
Lo scrittore bosniacoamericano Aleksandar Hemon a Mantova con il suo ultimo libro: dalla vita dei genitori sotto Tito ai ricordi di un’infanzia ribelle. «Putin brutale come Milosevic»
Lo scrittore Aleksandar Hemon

Lo scrittore Aleksandar Hemon - WikiCommons

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«Non ho nostalgia del passato perché il presente mi tiene troppo occupato. Ma la nostalgia mi interessa molto come forma di narrazione. La considero innanzitutto una forma di utopia retroattiva, un metodo psicologico con il quale molte persone affrontano i traumi costruendosi un passato ideale, del tutto privo di dolore e sofferenza ». Aleksandar Hemon è lo scrittore che ha vissuto due vite. La prima si è conclusa nel 1992, quando all’età di 28 anni lasciò la sua città natale, Sarajevo, per andare a studiare a Chicago. Di lì a poco iniziò l’assedio e per anni gli fu impossibile tornare nella sua città. I suoi antenati erano arrivati in Bosnia dalla Galizia - l’attuale Ucraina occidentale - prima della Grande guerra, quando entrambi quei luoghi facevano parte dell’impero austro- ungarico. Giunto negli Stati Uniti Hemon ha saputo tematizzare la complessità del suo background etnico attraverso una personalissima lingua letteraria, trasfor-mando le sue radici e la sua condizione di perenne straniero in un’inesauribile fonte d’ispirazione. Oltreoceano ha iniziato la sua seconda vita, quella di scrittore e drammaturgo di successo ma anche di marito, di padre e di cittadino del mondo. Attualmente insegna scrittura creativa all’università di Princeton, scrive romanzi e racconti che raccolgono regolarmente il plauso della critica statunitense ma gli è capitato anche di lavorare alla sceneggiatura dell’ultimo capitolo di Matrix. Ciononostante, Sarajevo resta il fulcro della sua produzione letteraria, che è contraddistinta dalla continua alternanza tra fiction e realtà storico-biografica, mentre la guerra continua inevitabilmente a spuntare ai margini della sua visione. A maggior ragione adesso che l’attacco russo all’Ucraina ha risvegliato in lui le memorie drammatiche vissute trent’anni fa. «Per noi bosniaci è facile riconoscere i sintomi dell’intento genocida», ci dice. «E in Putin ravviso la stessa brutalità e lo stesso cinismo di Milosevic». Durante il collegamento via Zoom per questa intervista Hemon si trova proprio a Sarajevo, dove torna regolarmente un paio di volte l’anno. «Ormai ho pochi parenti rimasti a vivere qui, ho soltanto qualche amico e alcune persone con le quali lavoro. Ma non ho mai smesso di amare questa città perché è l’unico posto al mondo dove mi sento davvero vivo. Altrove mi manca sempre qualcosa. Qui invece riesco a sentirmi appagato e nessuno mi chiede mai chi sono e da dove vengo». Alcuni anni fa, in una splendida raccolta di saggi autobiografici dal titolo Il Libro delle mie vite, lo scrittore bosniacostatunitense scandagliò a fondo la sua gioventù nella Sarajevo prebellica, il suo approdo a Chicago da immigrato, i suoi due matrimoni e il dramma di una figlia morta in tenera età. «Poi ho sentito il bisogno di tornare a cristallizzare i miei ri- cordi raccontando la storia dei miei genitori, dai tempi dell’utopia socialista di Tito a quando si sono ricostruiti una vita all’estero dopo i cinquant’anni. E mentre lavoravo a questo libro sono riaffiorati molti altri ricordi significativi della mia infanzia che mi hanno spinto ad ampliare il lavoro». Così, quasi per caso, è nato I miei genitori/ Tutto questo non ti appartiene (Crocetti, traduzione di Gianni Pannofino, 360 pagine, euro18,00; l’autore lo presenterà sabato 10 settembre al Festivaletteratura di Mantova), un libro che è in realtà un racconto doppio, come due lati della stessa storia. Nel primo ricostruisce la vita dei suoi genitori dal matrimonio all’emigrazione in Canada subito dopo l’inizio del conflitto in Bosnia. Delineando, attraverso le loro vicende personali, il ritratto della generazione che edificò la Jugoslavia socialista nel Secondo dopoguerra e poi assistette al suo sanguinoso crollo negli anni ’90. In una narrazione suddivisa in dieci capitoli ciascuno dei quali è dedicato a diversi aspetti delle loro vite - Hemon pone l’accento sull’identificazione negli ideali di operosità, sacrificio e ottimismo promossi dal regime titoista, e sul profondo senso di vuoto seguito al loro disastroso fallimento. Ma il libro è anche un atto d’amore nei confronti di sua madre e suo padre («Non voglio ancora sapere - scrive - dove troverò la saggezza e l’amore di cui avrò bisogno per restare a questo mondo quando loro se ne saranno andati»). Oggi i suoi genitori hanno ottant’anni e gestiscono un apiario nel cortile della loro casa canadese ma tengono ancora una foto di Tito appesa nella loro casa canadese. «Non c’è dubbio che la natura dello Stato creato in Jugoslavia dopo la fine della Seconda guerra mondiale sia stata autoritaria – ci spiega – ma al tempo stesso Tito aveva dato vita a una società stabile, in cui l’educazione e la sanità erano gratuite, e loro ebbero modo di lavorare a lungo, e con soddisfazione, nelle aziende statali. Per questo motivo tante persone provano una forma di nostalgia per quei tempi, rimpiangendo in un certo anche i loro anni giovanili trascorsi in un Paese che non c’è più, dove la guerra ha suddiviso la nostra epoca in un 'prima' e in un 'dopo'». Nell’altra parte del libro ( Tutto questo non ti appartiene) Hemon rievoca invece il mondo perduto della sua infanzia attraverso una serie di passaggi brevi e densi, quasi mai più lunghi di una pagina: i suoi giochi di bambino, il suo primo amore, i negozi del quartiere di Sarajevo doveva viveva, rasi al suolo per costruire grattacieli e supermercati, un’intera giornata trascorsa con la sorella a rompere i piatti in una discarica («Ora mi rendo conto che è stato uno dei giorni più felici della mia infanzia, forse di tutta la mia vita», scrive). E anche la gioia che provò da bambino nel rompere la finestra di un negozio, il cui vetro crepato diviene presagio della devastazione arrecata alla città dal futuro assedio. Oggi lo scrittore interpreta i suoi atti giovanili di vandalismo come una ribellione alla mentalità collettivistica del regime. «Alla morte di Tito, nel 1980, avevo sedici anni e non vedevo l’ora di contribuire alla dissoluzione dell’ideologia socialista. La trovavo di una noia soffocante, e per questo litigavo spesso con i miei genitori». Ogni volta che fa ritorno a Sarajevo, Hemon si rende conto quanto la guerra e il lungo assedio abbiano distrutto l’anima di quella città che aveva conosciuto durante la sua prima vita. Quanto i suoi abitanti ne portino ancora addosso le profonde ferite interiori. «Ma sebbene la Bosnia sia attualmente uno dei paesi più poveri d’Europa sono riusciti ad andare avanti e a convertire i loro traumi in qualcosa di vivo e di costruttivo, anche in termini artistici. Trovo che sia un fatto affascinante e sono profondamente orgoglioso del modo in cui i miei concittadini sono stati capaci di trasformare quel dolore in arte, in musica, in vita. Non è un caso che molte delle persone di maggior talento che conosco siano tutte di Sarajevo».

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