giovedì 7 settembre 2017
Gli intrecci culturali della narratrice canadese di origine cinese: «I popoli alla fine sono destinati a incontrarsi e mescolarsi: è proprio della complessità umana»
Thien: «I muri non hanno mai prodotto risultati»
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Ai-ming non è una dreamer, ma poco ci manca. Non dispone dei requisiti tecnici per aspirare alla cittadinanza americana previsti dal provvedimento varato nel 2012 dal presidente Obama e adesso messo a repentaglio, tanto per cambiare, dal successore Trump, però è negli Stati Uniti che la ragazza vorrebbe stabilirsi, in fuga dalla rivoluzione mancata di piazza Tienanmen. Che cosa le succeda veramente è uno degli enigmi che Madeleine Thien, narratrice canadese di origine cinese, ha deciso di non sciogliere nel suo Non dite che non abbiamo niente (traduzione di Maria Baiocchi e Rita Tagliavini, 66thand2nd, pagine 484, euro 22,00): «Lasciare qualche zona d’ombra – spiega – è un modo per ribellarsi alla storia ufficiale, un tentativo di contestare la pretesa che i fatti possano essere raccontati in un solo modo». Nata a Vancouver nel 1974 da padre sino-malese e madre di Hong Kong, nei suoi romanzi precedenti l’autrice si era già misurata con situazioni conflittuali e dolorose ( L’eco delle città vuote, edito dalla stessa 66thand2nd nel 2013, esplorava la tragedia della Cambogia martoriata dai khmer rossi), ma non si era mai spinta fino in Cina. Lo fa adesso, con Non dite che non abbiamo niente, del quale parlerà sabato a Mantova (Palazzo d’Arco, ore 21.00, con Chicca Gagliardo), in uno dei numerosi incontri che il Festivaletteratura di quest’anno dedica all’intreccio fra culture. «Se mi sono decisa – dice – è anche per rendere giustizia alle persone come Ai-ming».

A che cosa si riferisce?

«Sono rimasta molto colpita dalla vicenda di un cittadino cinese che nel 1989, subito dopo le proteste di piazza Tienanmen, aveva trovato rifugio negli Usa, senza tuttavia riuscire a regolarizzare mai la sua posizione. Nel 2001, all’indomani degli attentati dell’11 settembre, è finito in carcere con l’accusa di immigrazione clandestina, subendo maltrattamenti che lo hanno segnato per sempre. Ad Ai-ming, per quello che ne sappiamo, potrebbe essere successo qualcosa di simile».

Oggi invece potrebbe incappare nelle politiche di respingimento della presidenza Trump.

«Sì, è vero. Vede, non è mai facile cogliere le reali intenzioni di una persona o di una decisione, ma mi pare indubbio che nel dibattito degli ultimi mesi siano prevalenti i sentimenti della paura e del sospetto. Comprensibili, in un certo senso. Ciò non toglie che costruire muri e barriere sia un’illusione che nel corso della storia non ha mai prodotto risultati duraturi. Le culture sono destinate a incontrarsi e mescolarsi, affermare il contrario significa negare la complessità della natura umana. Il paradosso dei nostri tempi è che la globalizzazione si fonda sulla libera circolazione delle merci e intanto si ostina a contrastare la circolazione delle idee».

Vale anche per la Cina?

«L’emigrazione cinese è un fenomeno imponente e di lunga data, straordinariamente complesso nelle sue articolazioni. Quando mi sento ripetere che c’è molta Cina in giro per il mondo, mi viene subito da pensare alle innumerevoli stratificazioni e frizioni che si sono prodotte nel tempo. Da un lato le comunità cinesi all’estero sono consapevoli di appartenere a una tradizione millenaria, che però conoscono soltanto in parte, e dall’altro non riescono a integrarsi del tutto nella cultura di Paesi dei quali, spesso, comprendo- no male la lingua. La conseguenza è un’alternanza continua di risentimento e spaesamento, come se tra Oriente a Occidente corresse una linea opaca, discontinua e frammentaria».

Nel romanzo, però, incontriamo anche cinesi che si sentono stranieri in patria.

«Ho provato a ricostruire l’ambiente del Conservatorio di Shangai all’epoca della Rivoluzione culturale, un contesto cosmopolita nel quale i musicisti si appassionavano alle opere di Bach e Šostakovic, alle esecuzioni pianistiche di Ferruccio Busoni e, in generale, a un patrimonio di autentica avanguardia, bollato invece come degenerato e conservatore dalla propaganda comunista. Beethoven era un rivoluzionario, solo che i dirigenti maoisti non erano in grado di accorgersene, presi com’erano dall’impresa di forgiare una nuova identità che escludesse qualsiasi contaminazione. Ogni forma d’arte, secondo loro, doveva esprimere un solo significato, senza alcuna sfumatura. Il loro obiettivo era di arrivare a una società composta da un unico tipo di persone. È un progetto ricorrente anche fuori dalla Cina, purtroppo, ed è sempre molto pericoloso».

Marie, il personaggio che nel libro indaga sulla sorte di Aiming, non è un’artista, ma una matematica: come mai?

«Ho adottato spesso il punto di vista della scienza, che non è affatto freddo e distaccato come si ritiene normalmente. Quello della ricerca è, al contrario, uno sguardo che accorcia le distanze e che richiede un’attenzione estrema, appassionata. E poi c’è il fatto che le scienze dispongono di un linguaggio proprio, che permette di accedere una dimensione del pensiero che è insieme concettuale e lirica. La mia convinzione è che in un buon matematico si nasconda sempre un poeta».


Come accade nelle combinazioni di segni e di suoni caratteristiche della lingua cinese?

«Fino alla riforma della scrittura imposta da Mao Zedong il cinese è stata una lingua immobile, anche dal punto di vista della rappresentazione grafica. Gli ideogrammi, molto elaborati, recavano traccia dei vari passaggi storici. Era come se di ogni parola fosse possibile riconoscere e contemplare le fondamenta. Nel momento in cui, vincendo molte esitazioni, ho deciso di scrivere un romanzo sulla Cina, il mio desiderio è stato di far affiorare questa ricchezza attraverso lo schermo dell’inglese, la lingua in cui mi esprimo abitualmente. In gioco non c’era e non c’è soltanto il consueto passaggio da un idioma all’altro mediante la traduzione. La scrittura cinese si basa su una concezione dello spazio e del tempo molto diversa da quella occidentale. C’è un andamento dinamico, che procede in verticale, dall’alto in basso, ma anche in diagonale, producendo significati inattesi, al limite dell’ambiguità».

Che cosa resta, a distanza di tanti anni, del sogno di piazza Tienanmen?

«Il rimpianto di essere andati vicini alla vittoria, senza riuscire a coglierne i frutti. Se ripensiamo alla cronologia del 1989, ci accorgiamo che le proteste di Pechino sono state l’annuncio degli avvenimenti successivi, culminati nella caduta del Muro di Berlino e nello sgretolamento del sistema sovietico. Certo, anche in Cina il regime ha dovuto concedere qualcosa: lo stratagemma del capitalismo di Stato ha permesso di accordare la libertà economica, evitando così di fare concessioni sulla libertà personale e di pensiero. Ci si può arricchire finché si vuole, a patto di non entrare in conflitto con il Partito. Se questo succede, la finzione cade e si torna alla repressione ».

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