martedì 7 aprile 2020
Il sociologo: «La pandemia sta attuando la vera globalizzazione e distrugge ogni certezza. La tecnica può espandersi a dismisura ma il vero progresso lo genera l’umanità che conosce i propri limiti»
Franco Ferrarotti

Franco Ferrarotti - Archivio Siciliani

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«Ma gli olandesi hanno pensato che qualcuno, alla fine, i tulipani glieli dovrà comprare?». Franco Ferrarotti parla al telefono dalla sua casa di Roma, ogni tanto si interrompe per un saluto al figlio che lo chiama sull’altra linea, e poi torna a rispondere alle domande dell’intervistatore. Anche se, in realtà, l’intervista se la sta facendo da solo: prevenendo obiezioni, disegnando scenari, mettendo in campo tutta la sua esperienza di sociologo (fu lui, nel 1961, a ottenere la prima cattedra universitaria italiana dedicata alla disciplina). Oggi è il suo compleanno, 94 anni da celebrare in circostanze che, per quanto difficili, non mortificano affatto la curiosità di questo intellettuale infaticabile. «È un periodo terribile, di grande sofferenza per molti – ammette Ferrarotti – ma è anche una straordinaria occasione di ripensamento. Il futuro sarà diverso da come l’avevamo previsto, proprio per questo dobbiamo avere il coraggio di rifondarlo su categorie nuove».

Ecco: il futuro. Su questo tema Ferrarotti avrebbe dovuto tenere una delle lezioni organizzate in occasione del bicentenario di Marietti 1820, la casa editrice che ha da poco portato a termine il progetto delle sue Opere complete. Sei volumi in tutto (due di scritti autobiografici, due di scritti teorici, due di ricerche), ora disponibili anche in e-book per far fronte alla chiusura delle librerie. «La tecnologia ci mette a disposizione risorse formidabili – dice Ferrarotti –, però non dobbiamo illuderci che il futuro stia nella tecnologia».

Perché, professore?

«Perché il futuro ha un cuore antico, e le assicuro che non è una frase fatta. Per capire l’errore in cui siamo caduti negli ultimi anni, per esempio, sarebbe bene tornare a leggere le pagine che Hegel dedica alla dialettica tra servo e padrone nella Fenomenologia dello spirito. Abbiamo fatto troppo affidamento sulle macchine, fino a diventare dipendenti da esse. Ma le macchine non hanno volontà, non esprimono un progetto, non possono fare altro che replicare sé stesse all’infinito. Sono mezzi, strumenti. Non possono diventare uno scopo».

Dobbiamo rassegnarci a un futuro senza tecnologia?

«No, il punto non è questo. Ma non possiamo ignorare la realtà con la quale la pandemia ci obbliga a fare i conti. Vede, abbiamo tanto parlato di globalizzazione e adesso non vogliamo ammettere che la vera globalizzazione la sta attuando il coronavirus».

In che modo?

«Distruggendo le nostre false certezze, anzitutto. Ed è qui che entra in gioco la tecnologia o, meglio, il delirio di onnipotenza tecnica che ci portava a immaginare un mondo affidato ai robot, all’intelligenza artificiale, al meccanismo fantomatico della crescita economica sganciata dalla creazione di posti di lavoro. Era come se il “diritto all’ozio”, teorizzato Paul Lafargue alla fine dell’Ottocento, fosse lì lì per trionfare. Riconsiderati adesso, nella prospettiva della pandemia, questi ragionamenti ci sembrano di una ingenuità incredibile. Solo ora comprendiamo i limiti della tecnica e, insieme, i nostri stessi limiti».

Quali sono?

«La tecnica è una perfezione priva di scopo, interessata unicamente all’esattezza interna delle proprie operazioni. Può espandersi a dismisura, ma questa espansione caotica non comporta alcun progresso. Per il progresso occorre l’iniziativa umana, che può essere efficace a patto che l’essere umano stesso riconosca a sua volta i propri limiti. Altro che il "pastore dell’Essere" cantato da Heidegger: mai come in questo momento ciascuno di noi si sente fragile, addirittura in pericolo. Il futuro che siamo chiamati a ricostruire non potrà essere se non “a misura d’uomo”, per adoperare un’espressione cara ad Adriano Olivetti. La sua lezione, ora come ora, mi sembra più che mai attuale».

A che cosa si riferisce?

«Al fatto che per Olivetti, imprenditore di genio, il profitto non fosse da concepire solo in termini contabili, ma all’interno di una visione più ampia, che nel suo caso coincideva col famoso "ordine politico delle comunità". Ma in questa fase, purtroppo, è proprio il senso della comunità che manca».

Come ritrovarlo?

«Penso che la strada da percorrere sia quella della solitudine. Non è un paradosso. Il senso del limite di cui facciamo esperienza in questi giorni può aiutarci a riscoprire l’importanza della vita interiore, del silenzio, di quella beata solitudo che, come sappiamo, è sola beatitudo. Intesa correttamente, la solitudine non induce a chiudersi in sé stessi ma, al contrario, è la premessa necessaria all’incontro con l’altro. Dobbiamo mettercelo in testa: nessuno si salva da solo».

Forse andrebbe ricordato ai responsabili dell’Unione Europea…

«Vero, ma le esitazioni di questi giorni sono la conseguenza di una contraddizione ancora più vasta. Più l’innovazione tecnologica si muoveva su scala planetaria, più a livello governativo e di opinione si sviluppavano tendenze esclusiviste, nazionaliste, sovraniste. Prima noi e dopo gli altri, ha presente? Anche in questo momento c’è chi pensa di poter trarre vantaggio dalla tragedia della pandemia, ma la mia convinzione è che a prevalere sarà il diritto fondamentale di appartenenza all’umanità. A guidarci in questa direzione non sono solamente convinzioni ideali, ma anche considerazioni di buon senso. L’Olanda, appunto, ha bisogno di un mercato per i suoi tulipani, così come gli Stati Uniti di Trump hanno bisogno della manodopera dei chicanos contro i quali, fino a ieri, si erigevano muri. Quanto all’Unione Europea, è necessario che mandi un segnale esplicito di solidarietà sovranazionale. Non può accontentarsi di passare per un piccolo club di bottegai litigiosi».

Lei è fiducioso?

«Non mi verrebbe da esserlo, se mi limitassi a constatare il livello di consapevolezza complessivo dell’attuale classe dirigente. Ma le parole pronunciate da papa Francesco durante la memorabile preghiera in piazza San Pietro mi fanno sperare che sì, il risveglio di un comune sentimento di umanità è ancora possibile. E guardi che parlo da agnostico, benché di tipo un po’ particolare. Diciamo che mi considero un mistico di tutte le religioni, che però non si riconosce in nessuna di esse».

E l’Italia? Come le sembra che stia affrontando questi giorni?

«Il nostro Paese dà il meglio di sé nell’emergenza, è una nostra caratteristica consolidata. Lo dimostreremo anche questa volta, sono sicuro. Ma perché questa rinascita avvenga occorre ristabilire la rete delle relazioni personali, occorre ritornare a una socialità autentica. Il digitale, in questo momento, fa quello che riesce, ma da solo non basta. La tecnica è uno strumento, lo ripeto. Non può mai essere un fine».

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