giovedì 13 maggio 2021
Nel centenario dalla fondazione del Partito, un saggio di Giuseppe Vacca ricostruisce una cultura politica che ha le sue origini in Gramsci e Togliatti: uniti e divisi, anche sul cattolicesimo
Comunisti d'Italia tra Mosca e Vaticano
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Da principio Giuseppe Vacca non era troppo dell’idea. «E sì che nel mio caso si tratterebbe di un doppio anniversario – ironizza –. Il Partito comunista italiano viene fondato nel 1921, nel 1961 io prendo la tessera…». Perché non occuparsene, allora? «Perché non mi pare che abbia molto senso celebrare il centenario di una realtà che, in quanto tale, si è ormai estinta. Piuttosto, se proprio vogliamo occuparci di quel passato, cerchiamo di capire quale sia stata la cultura politica che il Pci ha cercato di favorire e diffondere ». Proprio questo è lo spirito di Il comunismo italiano (Carocci, pagine 288, euro 26,00), una raccolta di saggi riordinati da Vacca secondo un criterio nel quale le istanze della storiografia si intrecciano con la sua autobiografia di studioso e militante. Professore all’Università di Bari e a lungo direttore e presidente dell’Istituto Gramsci, Vacca è stato parlamentare comunista e ha partecipato alla transizione verso il Partito democratico. «Ma la discontinuità – sottolinea – appartiene fin dalle origini dall’esperienza del Pci. Questo è il dato su cui insistere per sottrarre le celebrazioni di quest’anno al rischio della retorica d’occasione».

La fine del partito coincide con la fine di una cultura?

Coincide con un fenomeno più ampio, che è quello per cui dal 1992 in poi comincia a deperire anche in Italia quella particolare forma di democrazia liberale che era stata rafforzata dal sistema dei partiti. Non sto affermando che oggi i partiti in quanto tali siano irrilevanti, ma di sicuro a essere completamente mutato è l’equilibrio fra contesto nazionale e orizzonte globale, con conseguenze consistenti anche sui modelli di organizzazione politica.

Ma la dimensione internazionale non è da subito una caratteristica del Pci?

Non poteva essere altrimenti, considerato che l’elemento più originale del comunismo italiano è rappresentato dalla volontà di rileggere il Novecento con la consapevolezza che ora, per la prima volta, la storia è diventata veramente mondiale. L’intuizione è già di Antonio Gramsci, che basa la sua riflessione sul trauma della Grande Guerra, sviluppando un metodo che permette di cogliere il nesso fra la parte e il tutto: nella fattispecie, tra le vicende nazionali e il quadro globale. Lo specifico del comunismo italiano in quanto cultura politica sta in questa ambizione di ripensare la modernità in piena autonomia. Il fatto cruciale è la tensione fra egemonia e interdipendenza, che si ripropone nel secondo dopoguerra, quando si fa ancora più forte la spinta a cercare soluzioni che favoriscano il cambiamento e, nel contempo, evitino il ricorso al conflitto armato.

Non è singolare che il primo curatore dell’opera di Gramsci sia stato Palmiro Togliatti?

Non soltanto il curatore in termini editoriali, direi. Il lavoro svolto da Togliatti sulle Lettere e sui Quaderni dal carcere da un lato ha garantito l’accessibilità a un pensatore che, altrimenti, sarebbe rimasto pressoché sconosciuto e, su un altro versante, ha comportato la gestione politica dell’eredità di Gramsci. I cui scritti, ricordiamolo, vengono pubblicati in accordo con Stalin. Certo, è stata praticata una separazione fra l’opera dell’autore e la sua biografia politica, che all’epoca comportava più di un elemento problematico. Ma è stato lo stesso Togliatti a porre le premesse che, in seguito, hanno consentito di studiare con maggior completezza la figura di Gramsci.

D’accordo, però il legame con l’Unione Sovietica è difficile da sottovalutare, non trova?

Per il Pci la Seconda guerra mondiale rappresenta un nuovo inizio, contraddistinto dal fatto che l’Urss ha ormai assunto il ruolo di superpotenza, e di superpotenza europea, in un certo senso. La stessa Guerra Fredda nasce dalla necessità di stabilizzare il bipolarismo con gli Stati Uniti, iniziativa tanto più urgente dopo che, nel 1949, con la Cina di Mao si amplia ulteriormente il campo d’azione del comunismo. Stalin si pone il problema di quali risorse possano essere messe in atto per gestire la situazione. A differenza di quanto affermato dalla propaganda, Mosca non vuole e non vorrà mai conquistare il mondo. Gli obiettivi dell’Urss sono semmai il consolidamento della propria sicurezza e la modernizzazione della società. In questa chiave, l’iniziativa dei partiti nazionali va a vantaggio della strategia del Cremlino, come conferma, tra l’altro, l’ultimo incontro fra Stalin e Palmiro Togliatti, avvenuto appunto nel 1949. In quella circostanza il segretario del Pci ottiene una legittimazione ex post della politica perseguita a partire dal 1945, anche per quanto riguarda i rapporti con la Santa Sede.

Per il partito questa è politica estera oppure interna?

Sia Gramsci sia Togliatti hanno ben presente l’importanza del cattolicesimo nel contesto italiano. Sono pronti ad apprezzare la portata storica di fatti specifici: Gramsci, in particolare, assegna grande significato alla nascita del Partito popolare di don Sturzo, mentre per Togliatti il Concordato del 1929 segna la fine della questione romana. Le valutazioni, tuttavi, divergono sul piano generale. Se infatti Gramsci è persuaso che la secolarizzazione eroderà la sfera religiosa, Togliatti arriva a contemplare la possibilità di una revisione della teoria del marxismo a proposito del ruolo della religione nella modernità. Il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa non è dettato solo da ragioni tattiche, ma si inserisce in un percorso molto articolato. Basti pensare che già negli anni Trenta, nel momento stesso in cui si rende conto dei piani espansionistici della Germania hitleriana, Togliatti prevede che il Vaticano si unirà al fronte antinazista. In quel periodo l’interlocuzione tra il Pci e le autorità vaticane è diretta e anche molte mosse successive, compresa l’accettazione del risultato elettorale del 1948, vanno inserite in questa prospettiva. Dal Vaticano II, e dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII, il dialogo si fa ancora più fitto. Ancora oggi, di fronte alla pandemia, la cultura da cui provengo non può non guardare a papa Francesco per avviare una riformulazione del nesso tra vita e politica.

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