
Papa Francesco bacia i piedi ai giovani detenuti di Casal del Marmo, Giovedì Santo 2023
Proponiamo la riflessione dello scrittore Colum McCann raccolta nel volume "Condividete con mitezza la speranza. Commenti al Messaggio di papa Francesco per la 59ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali", curato da Vincenzo Corrado Stefano Pasta per Scholé (pagine 250, euro 20,00). La prefazione è di Matteo Maria Zuppi, gli interventi, oltre che di McCann e dei curatori, sono di Paolo Ruffini, Riccardo Battocchio, Annalisa Guida, Milena Santerini, Fabio Pasqualetti, Giovanni Scarafile, Arnoldo Mosca Mondadori, Denis Mukwege, Gabriele Nissim, Gino Cecchettin, Rita Sidoli, Nello Scavo, Antonio Cuciniello, Alessandro Rosina, Stefania Careddu e Sergio Perugini.
Nel 2023, papa Francesco lavò i piedi a dodici giovani detenuti del carcere minorile di Casal del Marmo, alla periferia di Roma. Sua Santità si alzò dalla sedia a rotelle e si avviò, sorreggendosi a un bastone, verso la piattaforma rialzata accanto all’altare, dove i ragazzi lo attendevano. « La vita è più bella» disse, «quando ricordiamo le lezioni che ci insegnano ad aiutarci e ad amarci l’un l’altro». Qualsiasi cosa avessero fatto in passato, quei ragazzi non sarebbero stati abbandonati. Seduti nella straordinaria cadenza di quell’istante, vestiti di abiti semplici, tute e jeans, i giovani osservarono il Papa avvicinarsi. Si inginocchiò davanti a loro, versò l’acqua da un calice dorato e lavò i loro piedi, asciugando delicatamente le dita con una piccola salvietta bianca. Poi, con infinita dolcezza, baciò la pelle nuda. Un gesto che parve dilatarsi nel tempo, abbracciando passato e futuro: qui, là, adesso. Il Verbo fatto carne. Un ragazzo con i jeans strappati si chinò in avanti e sussurrò qualcosa al Papa. Gli occhi del Pontefice si illuminarono. Sollevò il volto dal ginocchio di tela strappata del giovane e gli strinse la mano. Le piccole misericordie dell’amore. Quel gesto gli era naturale, nonostante la fatica. Non era facile, eppure lo era. Spesso, a una verità ne corrisponde un’altra, opposta e altrettanto profonda. Avanzò lentamente lungo la fila, sorreggendosi al bastone. Si chinò e baciò la punta dei loro piedi. Nessuna predica, nessun sermone. Parlò con loro, non a loro. Nel silenzio di quell’istante, offrì loro non solo il gesto della purificazione, ma anche la possibilità di trasmettere, lungo la catena del tempo, lo stesso dono ad altri. Lavare i piedi a un’altra persona dovrebbe essere un gesto semplice per tutti. Eppure, le cose più semplici sono spesso le più difficili. Essere gentili. Essere indulgenti. Essere presenti. Amorevoli. In ascolto.
«Condividete con mitezza la speranza che risiede nei vostri cuori», ci ha implorato papa Francesco in occasione della 59ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Un appello perfetto per tempi lacerati come i nostri. Il Pontefice ci invitava non solo a raccontare le nostre storie, ma anche ad avere l’umiltà di ascoltare quelle degli altri. Condividere significa dare voce alla speranza che risiede in noi e al di là di noi. Una speranza che spesso resta chiusa in stanze che fatichiamo a riconoscere, specialmente nel territorio del cuore. Sappiamo ciò che desideriamo, ma fatichiamo a esprimerlo con parole precise. Sentiamo ciò che abita dentro di noi, ma non sempre riusciamo a liberarlo. Nessuno di noi, fisicamente, ha mai toccato il proprio cuore. Non possiamo attraversare la gabbia della nostra cassa toracica – se non con la violenza di una lama. Ma ciò che il Papa stava dicendo è che raccontare e ascoltare storie è uno dei pochi modi che ci permettono di oltrepassare la prigione dell’“io”. Per trovare, nel labirinto della nostra esistenza, non solo noi stessi, ma anche gli altri. Nel corso degli anni, il Pontefice ha lavato i piedi di detenuti, profughi e disabili. Ha compiuto questo rito per musulmani e per persone di altre fedi. Nel 2024, papa Francesco, durante questo speciale servizio annuale, lavò esclusivamente i piedi di dodici donne nel carcere di Rebibbia, a Roma. E mentre lui, dalla sua sedia a rotelle, compiva quell’atto di umiltà e gentilezza, molte di loro avevano gli occhi pieni di lacrime. Le storie lavano i piedi del mondo.
Ancora prima di inginocchiarsi davanti ai giovani detenuti di Casal del Marmo, il Papa parlò loro del significato della scelta di Cristo di lavare i piedi degli apostoli. Era una pratica comune, all’epoca. « Ma chi lavava i piedi?» chiese, lasciando che il silenzio accogliesse la domanda. Poi rispose: «Gli schiavi». Nel farsi non tanto schiavo, quanto colui che abbraccia lo schiavo, papa Francesco voleva insegnarci che dobbiamo aiutarci e comprenderci l’un l’altro, al di là di chi siamo o di dove ci troviamo. Perché in quel gesto si rivela una verità profonda: nell’umiltà del servizio, accediamo alla nobiltà universale del cuore umano. Narrare storie è, nella sua essenza, un atto democratico. È una pratica accessibile a tutti, capace di attraversare confini, generi, sistemi economici e divisioni. Può abbattere stereotipi e, se esercitata nel modo giusto, possiede un potere curativo, un balsamo in grado di tenere insieme un sistema – persino un’intera democrazia. Ma la narrazione può anche essere usata per dividere. Una storia può privarti della casa, dell’auto, dell’identità, della fede. Può essere un’arma, persino un atto di violenza. Una storia – soprattutto se falsa – ha il potere di toglierti il terreno sotto i piedi. Pertanto, dobbiamo essere consapevoli del suo doppio volto: le storie possono essere usate per fini violenti. Allo stesso tempo, possiedono una gioia, un potere catartico e una forza capaci di contribuire alla guarigione del mondo. La distanza più breve tra due persone è una storia. Siamo ciò che raccontiamo, ma anche ciò che scegliamo di ascoltare.
Gran parte del potere innato della narrazione risiede nel suo complemento essenziale: l’ascolto. Eppure, raramente gli riconosciamo il ruolo che merita. L’ascolto è spesso considerato un partner passivo, una presenza di sfondo, un lontano cugino ai margini del racconto. Ma in realtà, l’ascolto è il cuore stesso della narrazione. Viviamo nell’era esponenziale, un vortice in accelerazione, dove tutto diventa più veloce e più piccolo, più veloce e più economico, più veloce e più accessibile. Uno dei grandi sogni di Internet era quello di dar voce a tutti, perfino a chi vive ai margini della società. E in un certo senso, i social media ci hanno dato questa possibilità. Ma lo hanno fatto riducendo le nostre storie a frammenti sempre più brevi e brutali. Duecentoquaranta caratteri non bastano a portarci oltre il bancone della colazione. Un minuto su TikTok non illuminerà le profondità più oscure della nostra anima. Alla fine, tutto ciò che potremmo ottenere sono i nostri quindici zeptosecondi di fama. Il Messaggio semplice e profondo di papa Francesco – Condividere con mitezza la speranza che risiede nei nostri cuori – è, in ultima analisi, un invito a riconsiderare il modo in cui comunichiamo. Egli ci mette in guardia: troppo spesso la comunicazione è violenta, divisiva, capace di generare paura, disperazione e odio. Diventa un’arma, mira a ferire l’altro. Ci lasciamo assorbire dalla competizione, dall’opposizione, dal pettegolezzo, dal desiderio di dominio. Il Papa ci esorta a “disarmare” il linguaggio, a purificarlo dall’aggressività. A liberare le nostre parole da ogni forma di guerra e di schiavitù.
Traduzione di Marinella Magrì