martedì 12 settembre 2023
Le 381 lettere che la religiosa senese inviò ad amici e discepoli, ma anche ad alcuni grandi della terra, sono il prezioso legato di una donna poi proclamata Dottore della Chiesa
Santa Caterina da Siena in un dipinto di Andrea Vanni

Santa Caterina da Siena in un dipinto di Andrea Vanni - archivio

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Cari amici, paulo maiora (ovvero maxime altiora) canamus. Lo tzunami di bassezze, volgarità e sciatterie delle quali è costellata la vita pubblica italiana, e che fatalmente si riflette anche nella cultura e nel mondo degli studi, ci sta minacciando sempre più da vicino. È necessario rispondere al più presto, se non si vuole soccombere, con la migliore delle difese: l’attacco. Coraggio, dunque. Lasciamo alla cronaca le notizie sulle novità librarie che spopolano, i consigli delle belle influencers dagli occhi azzurri, i best sellers dei generali che s’improvvisano ohimè storici e sociologi: parliamo di cose serie, anzi di cose belle. « Ricordatevi, monsignore, che dovete morire: e non sapete quando».

Così scriveva da Avignone, e correva l’anno 1376, la “mantellata” (terziaria) domenicana Caterina di Iacopo Benincasa che in quel momento si trovava presso papa Gregorio XI per promuovere ardentemente la pace fra tutti i cristiani – specialmente nella sua Italia – e per convincere i principi europei a organizzare una grande crociata contro il pericolo di nuovi invasioni dall’Asia orientale, i turchi che stavano dilagando tra Balcani e Anatolia. Era lontana dall’odiare gli infedeli, Caterina: tutti i figli di Dio le erano cari alla stessa maniera. In una sua splendida visione gli sarebbero apparse due schiere, l’una dei cristiani l’altra degli infedeli, entrare insieme, separati ma concordi, nel cuore aperto di Gesù.

Ma il passagium, come allora si definiva la crociata, sarebbe servito a imporre la pace interna alla Cristianità: a ciò essa, allora come sempre, mirava. Il destinatario di quell’ammonimento saggio e terribile era uno dei più gran signori di quel momento, Luigi duca d’Angiò e fratello di Carlo V re di Francia: Che dovete esserne scosso: e accettò difatti, poco dopo, di mettersi a capo dell’esercito della croce. Ma la santa spedizione non si fece. Come al solito. I cristiani erano troppo occupati a macellarsi tra loro. Si dice di solito che tutto il mondo è paese. Anche la storia lo è, a modo suo. Raramente, nel male, noialtri umani smentiamo noi stessi. Eppure quella riga della mantellata senese che nel 1461 fu proclamata santa dal suo concittadino Pio II Piccolomini e nel 1939 patrona d’Italia – e anche allora, come nel 1376, avrà pregato per la pace: e ancora una volta purtroppo invano… continua a risuonarci ancora dentro, sei secoli e mezzo circa dopo che fu scritta. È indirizzata a tutti perché è la sorte di ognuno.

Che Caterina non sapesse scrivere nel senso materiale e manuale della parola è possibile, anche se qualcuno ne ha dubitato. Certo, non era in grado di farlo, diciamola all’inglese, fluently. Dettava: com’era peraltro allora costume abituale e diffuso. E le 381 lettere ch’essa dettò, rivolte soprattutto agli amici e discepoli ma anche ad alcuni grandi della terra, costituiscono – insieme alle altre opera cateriniane, prima fra tutte il meraviglioso Dialogo della Divina Provvidenza, che lei chiamava “il Libro” – il prezioso legato di una donna ch’è stata proclamata “Dottore della Chiesa”. Furono i suoi devoti seguaci Raimondo da Capua, Tommaso Caffarini e Stefano Maconi a scrivere in latino e quindi a volgarizzare in senese la biografia della Santa. Quanto all’epistolario, dopo una prima parziale e scorretta del 1492, l’impresa fu rilevata nel 1500 da Aldo Manuzio; e nel 1940 ecco, puntuale subito dopo l’elevazione della Santa a patrona nazionale, la bella edizione critica curata da Eugenio Dupré Theseider al n. 82 delle “Fonti per la Storia d’Italia” dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, il nostro Isime.

Ma da allora oltre ottant’anni sono trascorsi. Nell’eterna fatica di Sisifo ch’è la ricerca storica, in otto decenni anche la migliore ricerca invecchia. E adesso possiamo disporre finalmente, dopo un lunghissimo e durissimo lavoro, del I volume della nuova edizione dell’Epistolario, ordinato alfabeticamente secondo i nomi dei destinatari delle singole missive. (Caterina da Siena, Epistolario, I, lettere A-B, edizione critica coordinata a cura di Antonella Dejure, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, pagine 504, euro 60,00). Tralascio le lodi a quest’opera tanzione to meritevole quanto necessaria. Segnalo invece la sola paginetta XXI nella quale la curatrice Antonella Dejure c’informa delle linee portanti del suo lavoro, in quello stile umile e quasi esitante eppur obiettivamente sicuro ch’è tanto proprio dei giovani studiosi che sanno il fatto loro.

Era il 2017 quando Antonella e il team dei suoi collaboratori (quaranta in tutto: duole non ricordarli uno per uno) presero a pubblicare annualmente i contributi preparatori – oltre 40 – all’edizione critica; nell’aprile del 2021 è uscito il Catalogo dei manoscritti e delle stampe (“Antiquitates”, 54) ed ora ecco finalmente il primo volume dell’opera, che raccoglie 76 testi epistolari ordinati secondo nuovi criteri editoriali e corredati da un analitico esame storico-filologico. Contestualmente, è stato aggiornato il Database dell’Epistolario di Katerina da Siena (Dekas) ispirato a una rigorosa multidisciplinarietà coordinare al quale, viste anche la qualità dei suoi collaboratori e la varietà delle rispettive competenze, dev’essere stato un lavoro improbo e quindi tanto più meritorio. Il tutto è liberamente visitabile accedendo al sito.

Uno strumento di lavoro eccellente; una fatica ammirevole; una serietà e una dedizione che fanno onore alla coordinatrice, ai suoi collaboratori e all’Isime. Potremmo senza dubbio parlare di un risultato esemplare: spetterà poi agli studiosi il segnalare eventuali errori e lacune, che nelle opere umane ci sono sempre. È questa l’Italia che studia anche se e quando molto modestamente finanziata; che lavora anche se e quando oggetto di scarsi e frettolosi riconoscimenti; che opera perché ciò è suo dovere e in ciò sta la sua stessa più autentica ricompensa. Questo è tutto.

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