martedì 14 luglio 2015
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Certo gli industriali americani del disco non l’avrebbero mai potuto immaginare. Forse anzi, se l’avessero immaginato, avrebbero cercato di impedirlo: però il primo “concept album” della storia fu quanto di più antiretorico e non industriale si potesse pensare, almeno partendo dalla patria dell’industria del disco. I “concept album”, ovvero album dedicati a un unico tema, erano nati ampliando le potenzialità dell’industria e lanciando il 33 giri con belle collection d’amore firmate Frank Sinatra a metà anni Cinquanta. Però non fu un alfiere di lustrini e classifiche qual era il grande The Voice, a far diventare il “concept” faccenda tanto importante da divenire punto di riferimento per la musica d’autore moderna, per lo più quella impegnata. L’onore dell’idea toccò a Johnny Cash, un Cash reduce da trionfi popolari alla Elvis fra country e primo rock e non ancora icona etica quale sarebbe divenuto nella maturità: si trattava anzi di un Cash nel pieno di una crisi coniugale con corredo di alcol, droga e notti in guardina. Eppure fu lui, nel 1964, a licenziare il primo “concept” di coraggioso e controcorrente impegno sociale: da americano vero, potremmo scrivere ora, proprio per questo lontano da certo americanismo da establishment cultural-politicomediatico. Ma in fondo nel ’64 Cash era già, come avrebbe detto Dylan alla sua morte, «la nostra stella polare»; o, citando l’amico Kristofferson, «Paladino di chi non ha voce». Dunque il “concept” pensato, scritto e inciso da un Cash pur ancora lontano da esplicite scelte etiche e religiose, si intitolò Bitter Tears: lacrime amare. E più ribelle di qualunque provocazione rock, Bitter Tears  fece conoscere a States e mondo il dramma nascosto e censurato degli Indiani d’America: con otto ballate destinate a scalare le classifiche a dispetto di molti. Johnny Cash lavorò a lungo ai brani del disco, stazionando in sala d’incisione quattro mesi ma soprattutto provando a capire davvero la realtà che gli aveva fatto conoscere Peter La Farge, au-tore di diversi pezzi folk sugli Indiani. Il padre di La Farge era studioso dei Navajo, e Cash aveva incontrato Peter al Festival di Newport del ’63: suscitando subito nel collega «l’impressione di uno che volesse qualcosa in più di un suono, cercava profondità e verità e, quanto più contava, aveva la capacità di cantarle aderendovi e uscendo dalle convenzioni del rock». Cash partì dunque dai brani di La Farge, cui aggiunse una ricerca sul campo che gli sarebbe stata utile anche per cantare il Far West più tradizionale nel 1965. «Giravo in jeep o a piedi fra lupi e cimiteri indiani. Ho rischiato di morire, mi salvò un ranger, ma così ho capito la storia di noi bianchi e dei Pellerossa. E soprattutto sono stato nelle riserve indiane, ho visto la loro povertà e la loro dignità, e per questo poi ho sentito di dover far qualcosa per aiutarli». Il primo brano di Bitter Tears che Cash decide di incidere, a mo’ di singolo, è The Ballad Of Ira Hayes,  scritta da La Farge nel ’61 e destinata a simboleggiare in toto l’impegno di Cash per i Pellerossa. Ira Hamilton Hayes, indiano Pima, era stato fra i marines immortalati nell’atto di issare la bandiera a stelle e strisce dopo la storica battaglia di Iwo Jima durante il secondo conflitto mondiale. Solo che al ritorno a casa Hayes, emarginato in quanto indiano, si era ridotto in povertà ed era morto di stenti a soli 32 anni: anche a causa della siccità di cui soffriva il territorio assegnato alla sua tribù. Da questa ingiustizia che egli rese celeberrima, Cash partì poi per montare un disco intero contenente altri 4 pezzi di La Farge, The Vanishing Race (ovvero la razza che sta svanendo) di Horton e due brani propri dedicati agli indiani, Apache Tears  e The Talking Leaves. E le note di copertina dell’Lp, lette oggi, dicono tutto sul coraggio scomodo della faccenda. Se da un lato sottolineavano l’atipicità della scelta di Cash, dall’altro infatti ricordavano «quanti indiani ancora uccidano gli uomini bianchi». Ed anche se il redattore di tali note, Hugh Cherry, soggiungeva poi che comunque erano stati i bianchi a invadere i terreni dei Pellirossa, il suo testo insisteva nel definire le canzoni come «racconti», e solo alla fine scriveva perlomeno di ascoltarle bene. Le ascoltarono, con i seguenti risultati: i critici country attaccarono Cash di aver dimenticato le sue origini nei campi di cotone; e le radio non vollero passare la storia di Ira Hayes. Finché Cash, “alla Cash”, giunse a pagarsi uno spazio su Billboard  per scrivere: «Dov’è il vostro fegato? Queste canzoni sono medicine per pensare. Sono cambiato? Certo, è normale, altrimenti diventerei un fannullone. Alle ragazzine non piacciono le storie tristi? Ma io non sono più un adolescente. Classificatemi, soffocatemi pure, non ci riuscirete». Fu così che Bitter Tears superò le censure, The Ballad of Ira Hayes entrò nella storia della musica americana e anche la ribellione dell’establishment conservatore fu domata: finché l’Lp divenne icona del rock e primo esempio non solo di concept album sociale, ma anche della grandezza che avrebbe assunto nella storia la figura di Johnny Cash. Perché è proprio con faccende come Bitter Tears, in fondo, che Cash ampliò gli spazi per l’arte di un Bob Dylan e di molti altri.
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