domenica 15 ottobre 2017
Il cantante cominciò la carriera nel 2000 in un garage. Da allora nei suoi brani ha sempre mantenuto uno stile autoironico e colto. Lo dimostra anche l’ultimo album, “Prisoner 709”
Michele Salvemini, alias Caparezza

Michele Salvemini, alias Caparezza

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In un’epoca musicalmente dominata da un rap sotto il cui fumo non cuoce alcun arrosto, Michele Salvemini, alias Caparezza, è un’eccezione felice: fatta di arguzia, ironia e autoironia, coraggio, cultura. Nonché di un’educazione al pudore che traspare quando racconta il suo nuovo album Prisoner 709, settimo in studio di una carriera iniziata nel 2000 dentro un garage. E il cd, immediato quanto complesso, è un’altra faccenda per cui si potrebbe dire di arrosto sotto il fumo: da un lato trattasi di musica intelligente con riferimenti continui, dalla disco anni Settanta di Ti fa stare bene al rap duro di Forever Jung, sempre mossa, stuzzicante e suonata davvero; dall’altro ci sono testi in cui i giochi di parole tanto amati quanto sprecati nel rap da piccolo schermo diventano preziosi patchwork alla Flaiano del Duemila, che legge e conosce storia e realtà, e ne canta cantando pure le proprie paure e denunce mica facili. Perché in Prisoner 709, in tour dal 17 novembre (Ancona), Caparezza parte da problemi di salute che l’hanno colpito sotto forma di acufeni costringendolo a interrogarsi sulla sua possibilità di vivere ancora di musica; poi sottolinea quanto oggi la gente «ascolta la musica ma non la coerenza», e da lì dà stura a una sequenza di pensieri-grido su più temi: fra provocazioni (rap come «evoluzione delle scoperte di Freud»), bisogni spirituali da colmare, sane prese di posizione sugli scribacchini da talent «sguatteri di regime», commoventi viaggi in un sé bambino (la splendida Una chiave), una colta rivendicazione di non cercare il potere che tira in ballo persino Ludovico II di Baviera e Wagner. E anche se nel rap, dunque pure in quello di Caparezza, resiste l’allergia da pensiero astratto e qua e là nella prolissità il discorso si slabbra, non è mica poco gridarvi della falsità come modalità d’oggi capace di condurre pure al delitto nel- l’inquietante L’uomo che premette, scorgervi i troppi che «fanno il G8 nei bar» segnati dal «nero lutto di chi non ha niente a parte avere tutto », segnalarvi l’anelito a «un testo che tocchi la vetta del Kilimangiaro e non di Spotify». Michele/Caparezza canta «snobbo le firme perché faccio musica, non defilé» o «ascolta ciò che ti piace, non ciò che piace che piaccia»: e col suo canto riaccende speranze sul senso del rap odierno.

Il percorso del disco parte da una malattia: quanto cambia la vita un’esperienza così forte?

«Ha aumentato la mia attenzione a discorsi concreti, mi fa badare meno alle opinioni e più ai fatti. Anche perché i problemi all’udito si sono verificati mentre mi stavo già interrogando sulla mia crescita, sul senso del mio far musica da adulto dentro un genere che si rivolge di solito per lo più ad adolescenti».

Ecco: come giudica il rap che ci gira intorno?

«Io sono qui grazie al rap, dai tredici anni mi ha dato la possibilità di esprimermi. Però diciamo che il rap che va nelle hit non è quello che amo, più profondo. Ho imparato ad apprezzare contenuti, lessico, scrittura del genere da Frankie Hi-nrg, ora in Italia stimo Salmo che fa tutto da solo, Murubutu che scrive in modo poetico e fra i giovani Rkomi».

Lei del resto fa testi molto ricchi: quanto ci mette?

«Tantissimo. Sono esigente, li rivedo di continuo, per arrivare a La caduta di Atlante ho messo giù centinaia di bozze. Non credo si possa scrivere un bel testo in un’ora, o almeno a me non capita».

Il cd parla anche del conflitto fra Michele e il personaggio-Caparezza: quando questi diventa gabbia?

«Molto in realtà credo lo determini come mi vedono gli altri, io sono sempre io. E comunque è una gabbia relativa, qui ho lavorato da Caparezza ma uscendo dai suoi stilemi e andando oltre ogni convenzione. Certo occorre stare sempre molto attenti, per restare liberi e non venire mai percepiti scorrettamente».

Ma quali sono le sue maggiori paure da successo?

«Mi angoscia la possibilità di imbruttirmi, di diventare superficiale. Insomma, di diventare quel tipo di artista e rapper che ho sempre criticato…».

L’arrivo a una major l’ha aiutata?

«Sì, non mi hanno mai censurato. L’unico compromesso che mi è stato chiesto è fare un po’ di tv che scelgo con attenzione: sa, quel mondo mi mette a disagio…».

Sente mai la responsabilità di arrivare a tanti?

«Direi di no, seguo la mia attitudine alla curiosità e cerco di capire prima e cantare poi ciò che sento il bisogno di approfondire. Per questo disco ho letto Jung, la biografia di Freud, libri sull’autismo… E semmai pensavo si facesse fatica, a capire quello che canto: invece scoprendo me stesso e la mia timidezza di quand’ero bimbo vedo che ho scoperto anche i nervi degli altri, e che in tanti colgono e condividono».

Il cd suona da grande produzione USA: obiettivo?

«Far emergere la mia diversità, e spingere chi ascolta a sforzarsi per capire. L’arte vera per me deve richiedere fatica e impegno».

In tour lo proporrà com’è, il percorso del cd?

«Ora non posso dire molto, se non che cercherò anche un altro viaggio: vorrei alternare fisicamente nel pubblico le sensazioni di prigionia e libertà di cui il disco parla in più modi. E lo farò lavorando su oggetti, scenografie e scelta delle canzoni».

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