sabato 30 luglio 2011
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«Donato Bergamini i suoi misteri se li teneva dentro. Dal gennaio del 1989, cioè da quando in allenamento un’entrata assassina, “volontaria”, di Giorgio Venturin gli aveva fratturato il perone. Da quel giorno, tutti quelli che conobbero Donato si ricordano di un suo radicale cambiamento...». È il racconto che fece a Carlo Petrini, il massaggiatore del Cosenza di allora, Maltese. Il “bomber maledetto” Petrini, su questo autentico giallo del calcio italiano una decina di anni fa scrisse un libro-dossier, Il calciatore suicidato. La morte senza verità del centrocampista Donato Bergamini (Kaos Edizioni). Aveva appena 27 anni Bergamini, detto Denis, quando morì, il 18 novembre 1989. E dopo quasi ventidue anni, finalmente il caso della morte misteriosa del centrocampista del Cosenza viene riaperto dal procuratore capo di Castrovillari Franco Giacomantonio. Una vicenda che la magistratura aveva archiviato in fretta nel ’92, con una sentenza che non ammetteva repliche alla tesi, traballante, del suicidio. A partire da Petrini, tanti in questi anni non hanno mai creduto al suicidio di un ragazzo a posto che quella sera fredda di novembre era andato incontro alla morte nella piazzola della Statale Jonica 106, in località Roseto Capo Spulico. Tanti, troppi i punti oscuri. A cominciare dalle telefonate sospette di quel sabato. E poi il “tuffo volontario”, sotto un camion che trasportava 138 quintali di mandarini e che lo aveva trascinato sull’asfalto bagnato dalla pioggia per 60 metri. Eppure, a referto Bergamini avrebbe riportato appena un ematoma sulla fronte. «Ma scherziamo? E questo sarebbe un suicidio?», dice ancora accalorandosi Petrini che per la stesura di quel libro andò a Cosenza, trovando scarsa collaborazione, perfino nella cosiddetta società civile.La famiglia Bergamini, gente per bene di Boccaleone, campagna ferrarese, non ha mai creduto neppure per un momento che il loro ragazzo si fosse tolto la vita da solo. È questa la tesi sviluppata dall’avvocato Eugenio Gallerani, legale della famiglia Bergamini, nella sua inchiesta privata. «Sono 208 pagine in cui finalmente speriamo che si possa arrivare alla verità...», dice commosso Domizio, il papà di Donato. La verità sulla sua morte, da quel giorno di novembre, è rimasta imprigionata tra le pieghe di una vita privata che da dolce e spensierata, si era fatta d’un tratto pericolosissima. Ombre fitte sulla fidanzata Isabella. Donato l’aveva conosciuta poco più che sedicenne, ma nell’ambiente della squadra calabrese, già prima della tragedia, qualcuno dice che era nota come la «vedova allegra». Un rapporto tormentato, interrotto, ma a quanto pare la sera dell’incidente Isabella era a Roseto Capo Spulico, a bordo della Maserati del calciatore. «Isabella ha sempre raccontato agli inquirenti che Donato voleva scappare via, alle Hawaii, in Australia, insomma all’estero. E che dopo due ore di discussione all’improvviso si gettò sotto a quel camion... – racconta Petrini – . Ma una che vede una scena del genere poi cosa fa? Non chiamò subito i carabinieri, ma raccontò di un fantomatico soccorritore - di cui non si è mai saputo più nulla - il quale arrivato sul posto lasciava la moglie incinta lì sulla Statale, davanti al cadavere di uno sconosciuto, per di più in una sera di pioggia, e prendeva la guida della Maserati per accompagnarla in un ristorante di Roseto Marina dove le prime telefonate che fece furono al compagno di squadra Marino, all’allenatore Gigi Simoni, a sua madre e al direttore sportivo Ranzani». Quest’ultimo si precipitò subito sul luogo dell’incidente insieme al vice di Simoni, Pini, che si sarebbe messo al volante della Maserati di Donato.E qui un’altra ombra foschissima scende sull’automobile. La Maserati di Bergamini rispunterà il giorno dopo per essere consegnata al padre del giocatore, linda come se fosse appena uscita dalla fabbrica, priva di ogni traccia per effettuare i rilevamenti scientifici del caso. E il mistero si infittisce ancora all’obitorio di Trebisacce. Al momento dell’autopsia, effettuata un paio di mesi dopo la morte, Bergamini indossava solo le calze e i vestiti che papà Domizio e mamma Maria cercavano disperatamente di recuperare, mentre erano finiti da un pezzo nell’inceneritore. Le scarpe invece furono recapitate alla famiglia Bergamini tempo dopo, ad opera del factotum della squadra, Domenico Corrente. Un altro factotum del Cosenza, Alfredo Rende, informato su questo e altri episodi, fu indotto al silenzio. Fino al giorno in cui, forse punto dal rimorso, Alfredo telefonò a casa Bergamini, annunciando che a fine campionato si sarebbe recato a Boccaleone per «raccontare tutto». Ma non avrebbe più parlato. Di lì a poco Rende sarebbe morto, anche lui vittima di uno strano incidente d’auto, e guarda caso sempre lungo la Statale Jonica 106. Sulla scena, sempre più misteriosa, all’improvviso spunta una “giovane detective”. Damatiana De Santis, falso nome di una presunta studentessa alla Facoltà di Matematica di Cosenza, che nel frattempo si è volatilizzata e sarebbe molto importante se ora ricomparisse per svelare altri dettagli importanti, come quelli che rivelò allora.Tipo che a Bergamini venivano date delle “scatole di cioccolatini” quando con il Cosenza saliva al Nord per le trasferte del campionato di Serie B. In quella scatola non c’era certo della dolce e innocua cioccolata, ma veniva nascosta la droga da spacciare nel fiorente mercato dell’Italia settentrionale. Bergamini è probabile che a un certo punto scoperto il trucco si sia rifiutato e per questo ha pagato con la vita? La droga circolava anche nell’ambiente dei calciatori del club calabrese e qualcuno di loro si prestava da anni anche alla pratica consolidata degli “aggiustamenti” delle partite.Storie di ordinaria follia, eppure così attuali che rinviano al gioco sporco dell’ultimo scandalo estivo di Scommessopoli. Che da professionista serio e puntuale quale era, Bergamini si sia rifiutato di truccare le partite? Di sicuro c’è che nella stagione 1988-’89 la malavita scese pericolosamente in campo. Franco Pino, un boss dell’ ’ndrangheta, in un processo confesserà che in quel campionato aveva truccato l’esito della partita Cosenza-Avellino (2-1), tenendo in ostaggio sulle tribune dello stadio San Vito, durante l’arco dei 90 minuti, la moglie di un giocatore della squadra irpina, «per essere certo - rivelò - che il risultato andasse a buon fine». Pratica scandalosa, perpetrata, forse, fino all’ultima prestazione di Bergamini: quel Monza-Cosenza (1-1), disputata il 12 novembre. Sei giorni dopo la fine. Un tragico epilogo, sicuramente evitabile. Il bomber di quel Cosenza, Michele Padovano (finito poi sotto accusa per spaccio di droga), al funerale di Donato disse al padre Domizio: «Se tuo figlio me lo avesse detto... Io conoscevo un pezzo da novanta che avrebbe messo tutto a posto...». Ma cosa c’era da mettere a posto? È uno degli innumerevoli interrogativi ai quali è giunto il tempo di dare una risposta.«Una cosa solo è certa, Denis sotto quel camion non ci si buttò. Lo gettarono quando era già morto ammazzato», è l’eterna convinzione di Petrini. La convinzione di molti, in questo giallo ancora irrisolto ed ennesima storia di fango e malavita, intorno al dio pallone.
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