mercoledì 8 aprile 2020
Il 12 aprile del 1970 la squadra sarda vinceva il suo primo e unico scudetto. Un trionfo che fu simbolo di riscatto non solo sportivo
La formazione del Cagliari dello scudetto, stagione di grazia 1969-’70

La formazione del Cagliari dello scudetto, stagione di grazia 1969-’70

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Non succederà più... Chissà? Sta di fatto che il Cagliari della stagione 1969–70, è una storia unica e irripetibile, fin dal suo “decollo”. «La prima cosa che vidi dall’aereo furono le palme africane di via Roma». Era l’estate del 1963, e quella fu la prima cartolina stampata per sempre nella memoria di Gigi Riva, il giorno che atterrò nell’Isola. L’Isola che non c’era proprio nell’immaginario di un 19enne nato e cresciuto tra le nebbie padane dell’oratorio di Leggiuno ( Varese). In quella che in tanti allora credevano fosse la cayenne calcistica, la terra della punizione – Boniperti quando minacciava un giovane della Juventus, soleva dire «ti mando al Sorso!», un remoto club del sassarese – per il giovane Riva, ex frantumatore di finestre con il suo sinistro dinamite, sarebbe diventata la terra madre.

Cagliari e la Sardegna gli hanno riempito, almeno in parte, quel vuoto interiore incolmabile lasciatogli dalla perdita del padre morto (operaio, schiacciato dalla pressa) quando Gigi era un bambino e la mamma non ha fatto in tempo a vedere il suo amato figlio diventare una leggenda del calcio italiano e mondiale, ma soprattutto il “quinto” dei Quattro Mori della bandiera di Sardegna. Giggirrivamito per sempre, specie quella domenica di 50 anni fa: era il 12 aprile, quando l’epico Rombo di Tuonobreriano con uno dei suoi pezzi forti di repertorio, gol di testa a volo d’angelo, contro il Bari realizzò la rete che regalava il primo e unico scudetto al Cagliari. Si materializzava una concreta utopia, che riabilitava un popolo povero e migrante, da sempre al margine della storia patria e tacciato di banditismo, che ogni domenica si spostava da uno stadio all’altro con eufo- ria transumante.

E poi quel titolo in Sardegna infondeva una rinnovata speranza, una spinta rivoluzionaria a quel calcio di provincia che allora poteva ancora giocarsela alla pari con le tre nobili blasonate di sempre: Juve, Inter e Milan. Una cavalcata trionfale, resa possibile per la compattezza e l’unione davvero “sarda” di un gruppo di uomini che incarnavano a pieno il coraggio indipendentista del guerriero Amsicora, l’indigeno cartaginese che nel 215 a.C capeggiò la rivolta contro i romani invasori. Lo stadio Amsicora fu il piccolo grande teatro delle imprese del Cagliari di Riva e di quella anonima “sporca dozzina”, per lo più fatta di lombardo–veneti, scartati dai grandi club del Nord, spediti al “confino” per andare a creare una sorta di legione straniera, la cui missione fu anche quella di combattere in campo, contro tutto e tutti, per riscattare l’onore dell’Isola.

Quel Cagliari, a cominciare dal suo Filosofo in panchina, il pedagogo Manlio Scopigno, fu un esempio di autarchica anarchia applicata al gioco del pallone. «Una squadra operaia i cui componenti erano garanti di sé. Riva l’ha chiamata libertà, Cera responsabilizzazione. Qualcosa di impensabile nel calcio– caserma dell’epoca», ha scritto Gianni Mura in prefazione a un libro sorianesco, il più bello di quelli pubblicati sul Cagliari, uscito dalla penna altrettanto anarchica di Paolo Piras (giornalista di Rai 3), Bravi & Camboni (Egg). Una banda poetica quanto guascona, ma con giudizio, scevra ai ritiri eppure preparata atleticamente e baciata da madre natura, in cui a tutti era concesso di bere un bicchiere di più e di fumare la giusta stecca settimanale di sigarette, a patto che alla domenica il risultato non venisse mai meno. Una squadra offensiva quanto spregiudicata, ma l’ultima parola spettava alla difesa. Una grande muraglia piazzata davanti all’acrobatico Ricky Albertosi. Portiere futurista, a cominciare dal look: aveva pensionato il nero seppia classico della casacca del n.1 lanciando la moda della maglia colorata (rossa). Perché? In allenamento il prode Riky si accorse del potere abbagliante della tenuta cromata che mandava fuori mira perfino un cecchino infallibile come fratel Riva. Grazie anche a quella stravaganza british, un po’ amuleto e un po’ anti– gol, il Cagliari chiuse quel campionato subendo appena 11 reti (record insuperato nella Serie A a 16 squadre). Una squadra talmente libertaria, si diceva, che alla fine si ritrovò con due “liberi” di ruolo: lo sfortu- nato TomasGiuseppe Tomasini si infortunò e Scopigno dall’alto della tribuna (venne squalificato per mezzo campionato a causa di un “dialogo socratico” rivolto alla terna arbitrale) si inventò Pierluigi Cera, il capitano coraggioso di Legnago (Verona), ultimo difensore con licenza di attaccare. Invenzione brevettata e donata al ct azzurro Ferruccio Valcareggi che con sommo dispiacere lasciò a casa davanti alla tv il malconcio Tomasini e promosse Cera a baluardo difensivo azzurro sotto un cielo di Messico e nuvole. Il bresciano (di Palazzolo sull’Oglio) Tomasini come metà di quella squadra dei miracoli è rimasto a vivere a Cagliari e ha continuato a svolgere il ruolo dell’eterno uomo del “soccorso rossoblù”. Con Comunardo Niccolai (ingiustamente etichettato il “principe degli autogol”) e Giulio Zignoli hanno dovuto piangere la morte del compagno di reparto, il barese Mario Martiradonna e assistito fino all’ultimo respiro il dolcissimo Nenè: il brasilero del Santos, un “falso 9” ante litteram pagato a peso d’oro nel 1963 dalla Juventus che non si accontentò degli 11 gol in bianconero segnati dal dinoccolato Claudio Olinto de Carvalho, e a fine stagione lo dirottò a Cagliari. Nenè sbarcò nella futura Isola del tesoro portando in valigia un pezzo di quella alegria do povo ereditata da Garrincha, nello spogliatoio suonava la chitarra e sulla spiaggia del Poetto ballava la samba e giocava a pallone con i ragazzini dei quartieri poveri della città. Nei giorni tristi del dolore, in clinica dopo l’operazione per un edema cerebrale, tutti gli ex ragazzi del Cagliari del ‘70 ricrearono lo spogliatoio nella camera di Nenè, e Claudio, seduto sulla sedia a rotelle, sentiva l’abbraccio caloroso dei suoi compagni come dopo un gol all’Amsicora.

Il gol più dolceamaro Riva lo segnò con dedica speciale a Riccio. Ricciotti Greatti, il “10” che saltò il Mundial («se non avessi Mazzola e Rivera ti porterei», gli annunciava alla vigilia di Messico ‘70 uno sconsolato Valcareggi) ma scese in campo perfino il giorno del funerale della madre: freddo e impeccabile al suo posto, in regia, salvo poi sciogliersi in un pianto dirotto, spiazzante per il pubblico ignaro, quando Riva segnò e corse ad abbracciare lui, il suo fedelissimo Riccio. Potere dell’amore, quello trasmesso da Scopigno a ogni singolo elemento della rosa. Per lui erano tutti uguali i suoi figliocci, e quando nelle partitelle d’allenamento Riva esagerava negli scontri ruvidi e ravvicinati con l’arcigno Giulio Zignoli, il Filosofo sarcastico lo ammoniva: «Gigi piano, che senza Zigno domenica perdiamo, di te possiamo fare anche a meno». Tutti utili e tutti indispensabili alla causa in quel Cagliari del favoloso Domingo Angelo Domenghini e dell’altro perno di centrocampo Mario Brugnera. Splendido anche l’apporto di Bobo Gori, milanese che andò alla Juve al posto di Riva che, anche prima dell’infortunio, dei miliardi degli Agnelli non ne volle mai sapere. Re Gigi e rimasto lì a Cagliari, anche solo per ricordare di quella volta che Cera si avvicinò alla panchina di Scopigno per chiedergli: «Mister quanto manca?», e il Filosofo togliendosi la sigaretta di bocca gli rispose: «A cosa?».

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