giovedì 5 luglio 2018
Dopo i Mondiali 2014 e le Olimpiadi 2016 il Paese è ripiombato in una situazione di estremo disagio economico. Le speranze di un popolo appese ai piedi di Neymar
Neymar, il numero 10 dei verdeoro durante una partita dei Mondiali di Russia

Neymar, il numero 10 dei verdeoro durante una partita dei Mondiali di Russia

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Il Brasile si affida ancora al calcio per ritrovare l’allegria, per recuperare la voglia di stare insieme, nel tentativo di allontanare, anche per qualche effimero attimo, le laceranti divisioni politiche di oggi. La Terra del futuro agognata da Stefan Zweig è un pallido ricordo, una fragile utopia: ma ora c’è la Seleçao, con i suoi abbaglianti frombolieri, i suoi nuovi idoli, a ridare il sorriso; si è qualificata per i quarti di finale del mondiale in Russia e domani affronterà il temibile Belgio, la più sudamericana delle europee. C’è una volontà collettiva di qualche giorno di spensieratezza, per non pensare al caos sociale, al numero di disoccupati che aumenta sempre di più, alla violenza quotidiana, alla paura costante.

E su tutto e tutti incombe l’ombra lunga dell’ex presidente (dal 2003 al 2010) Lula che, dal carcere di Curitiba, dove è detenuto dall’aprile scorso, con una condanna, in appello, di 12 anni e un mese, decisa dal giudice Sergio Moro nell’ambito dell’inchiesta “Lava Jato“, la “Mani Pulite” brasiliana, continua a lanciare messaggi al suo popolo, al suo partito (quello dei Lavoratori), proclamandosi innocente e vittima di un vergognoso “golpe” mediatico messo in atto da Michel Temer, il politico di destra che ha riportato il Gigante sudamericano indietro nella storia e nella morale. Le accuse a Lula si sono dimostrate fragili, destando indignazione e perplessità in molti osservatori internazionali, e i legali dell’ex operaio pernambucano stanno facendo il possibile e l’impossibile per permettere a Lula di candidarsi alle elezioni di ottobre. Nei sondaggi è lui in testa, con un ampio margine rispetto agli avversari. L’hashtag che va di moda è #BrasilHexaLulaTri: alla Seleçao la sesta coppa e a Lula il terzo mandato. Più facile per la nazionale verdeoro, in verità...
Lula si fa sentire, come commentatore sportivo, anche dalla prigione, mandando i suoi commenti all’amico José Traiano, che li legge durante le dirette all’emittente TVT, quella del sindacato dei metalmeccanici. L’ex presidente elogia il lavoro dell’allenatore Tite, che ha portato, in passato, al successo il suo Corinthians, la squadra del gramsciano dottor Socrates, e difende a spada tratta Neymar dalle aspre critiche per i suoi atteggiamenti in campo, quelle improvvise cadute senza aver ricevuto nemmeno il sospiro leggero, il soffio lieve di un intervento falloso. Ma proprio in quel crollare per terra di O Ney, in quel rotolarsi, in quelle sceneggiate grottesche, e poco degne per un giocatore del suo talento, possiamo leggere la metafora di una Nazione, il suo essere e divenire attuale, la confusione e l’incapacità di restare in piedi. Rotola Neymar, preso solennemente in giro dai social, che lo fanno cadere anche durante l’esecuzione dell’inno nazionale o mentre l’avversario gli stringe la mano prima del calcio d’inizio, e rotola l’economia brasiliana, rotolano le speranze, rotola la dignità. Il Grande Sogno di Lula prima e di Dilma poi, cibo, sanità e istruzione per tutti, è stato frantumato da un Governo di solo uomini, che hanno portato il Brasile, dopo i tanti, troppi problemi sorti dal dopo Olimpiade, a una stagione di povertà, di buio: sembra, per certi versi, di essere tornati al 1964, all’inizio della dittatura. Certo, mondiali e Giochi furono gestiti, dal punto di vista finanziario, malissimo da Dilma, con troppe cattedrali nel deserto, ad esempio. Ma Lula e Dilma si sono battuti, sempre, per i poveri, per gli emarginati e per gli invisibili: con fatti concreti e non con le fandonie; Temer e compagnia rappresentano, invece, il nulla vestito a festa. Sì, il Brasile può vincere il suo sesto titolo mondiale. La squadra di Tite mette insieme la scienza e la fantasia, la ragione e l’estro, la prosa e la poesia. La difesa è solida, gestita da un portiere come Allison, che a molti ricorda Gilmar, campione nel 1958 in Svezia e nel 1972 in Cile; il centrocampo è robusto, concreto e, spesso, geniale; in attacco si è svegliato Neymar e tutti sono ancora in attesa dei colpi magici di Gabriel Jesus, che potrebbe, a questo punto, diventare il Pablito Rossi della Seleçao. Poi, ci sono i “velocisti” come Marcelo, Douglas Costa e Willian, e gente che sa segnare come Coutinho e Firmino.

Molto dipende, ribadiamo, da O Ney. Ora non ci sono più Cristiano Ronaldo e Lionel Messi, ora il Mondo potrebbe diventare, solo ed esclusivamente, suo. Deve smetterla, però, di fare il bambino furbo e viziato e vivere, senza inganni, della propria, immensa classe. Finirla con quel ridicolo rotolare: deve imparare a non cadere come un burattino senza fili, a dimostrare a tutto il Brasile che è possibile ritornare credibili, rinunciando alla farsa. A rialzare orgogliosamente la testa. E a vincere, anche in mezzo al labirinto delle disillusioni, nel gorgo di stridenti contraddizioni. Tornerà la felicità, sul prato verde e nella vita di ogni giorno. Coraggio, Brasile.

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