venerdì 30 novembre 2018
L’esperto dell’Ispi Alessio Iocchi spiega perché né l’esercito locale né la mobilitazione internazionale riescono a debellare il movimento jihadista in Nigeria
Una donna incinta tra le macerie di Gamboru Ngala (Emanuela Zuccalà)

Una donna incinta tra le macerie di Gamboru Ngala (Emanuela Zuccalà)

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Il 22 ottobre l’emittente americana Hbo ha lanciato il documentario Stolen Daughters ("Figlie rubate"), per dare voce alle vittime del rapimento che ha rivelato al mondo l’efferatezza del gruppo terroristico nigeriano Boko Haram. Erano 276 le studentesse rapite nell’aprile 2014 a Chibok, nello Stato del Borno: nonostante la mobilitazione internazionale con la campagna “Bring Back Our Girls”, 112 sono tuttora prigioniere o disperse. Come la 15enne Leah Sharibu, catturata lo scorso febbraio durante un altro blitz in una scuola nello Stato nigeriano di Yobe: l’unica, fra 110 ragazze prese a forza, la cui sorte resta ignota.

Leah è cristiana e rifiuta di abbandonare la sua religione: per lei si sono mobilitati i vescovi della Nigeria. Il suo volto sta diventando il simbolo del terrore che dal 2009 domina il Nordest della Nigeria. Perché, nonostante i proclami del presidente Muhammadu Buhari, Boko Haram è tutt’altro che sconfitto. Negli Stati di Yobe, Adamawa e soprattutto nel Borno, il bilancio è da guerra civile: 30mila morti, 1,9 milioni di sfollati interni, 200mila rifugiati in Niger, Camerun e Ciad, dove i jihadisti hanno sconfinato travolgendo il bacino del Lago Ciad.

Con quasi 8 milioni di persone bisognose d’assistenza umanitaria, la crisi nel Paese più popoloso d’Africa, nonché primo produttore di petrolio, è per numeri la più grave nel continente dopo quella in Repubblica Democratica del Congo. «Sebbene sia stato cacciato dalle principali città, Boko Haram detiene ancora basi nella foresta di Sambisa nel Borno, nelle province di Marte e Abadam, sui monti Mandara al confine con il Camerun e sul Lago Ciad in Niger» spiega l’analista dell’Ispi Alessio Iocchi, del dipartimento Asia Africa Mediterraneo dell’Università di Napoli l’Orientale, studioso di Boko Haram, di ritorno dal Niger in vista di una pubblicazione sul tema. «Oggi i jihadisti attivi sarebbero tra mille e duemila, divisi in fazioni senza un capo né un coordinamento, tanto che nemmeno rivendicano gli attentati».

Quali sono queste fazioni?

«C’è quella di Abubakar Shekau, il leader subentrato al fondatore Mohammed Yusuf dopo il suo assassinio in carcere nel 2009: invasato religioso, è stato ripudiato dall’Isis. La sua è la frangia con più uomini e armi, in cerca di attentati clamorosi, ma ormai senza più legittimità sociale né religiosa. C’è poi il gruppo Ansaru, appoggiato da Al Qaeda, autore dell’attacco del 2011 alla base Onu nella capitale Abuja, con 23 morti e oltre 100 feriti. A Isis è invece affiliato il 27enne Abu Musab al Barnawi, figlio del fondatore: molto attivo sui media, opera più come guerriglia che con azioni eclatanti, ma è lui a tenere davvero in scacco gli eserciti nell’area».

È la frammentazione a rendere Boko Haram difficile da indagare e definire?

«Anche. I servizi di sicurezza nigeriani lo considerano un franchising, cioè una sigla cui chiunque può affiliarsi. Non c’è una mente unitaria né una sede centrale: le fazioni si auto-organizzano e operano tramite contatti informali. È un’organizzazione talmente sciolta che si fatica a denominarla un’associazione terroristica classica, come Al Qaeda o Isis, anche perché i jihadisti nigeriani non hanno un processo unitario di reclutamento. Non si chiamano nemmeno Boko Haram, che è invece un insulto (in lingua hausa “l’educazione occidentale è proibita”) coniato da studiosi salafiti locali per prenderne le distanze. Il vero nome è “Gruppo della gente della Sunna per la propaganda religiosa e il jihad”».

Come avviene il reclutamento?

«Quando comandava il fondatore Yusuf, era su base volontaria: i 6 milioni di abitanti del Borno sono in maggioranza musulmani, terreno fertile per rivendicazioni dell’Islam politico, tanto più che nell’area i movimenti salafiti crescevano fin dagli anni ’60. La partecipazione ideologica è proseguita con la leadership di Ansaru: non dimentichiamo che nel Nordest della Nigeria lo Stato è assente, dal punto di vista sia strutturale sia simbolico. Ma negli ultimi due anni, con la supremazia di Shekau, la mobilitazione è diventata coercitiva, con i rapimenti in stile Chibok».

Perché l’esercito nigeriano non riesce a tener testa ai terroristi?

«Pesa il fattore etnico: molti militari provengono da altre aree del Paese, non parlano le lingue locali e da molti sono visti come esercito d’occupazione. Ricordiamo che Amnesty International ha documentato gli abusi commessi dai militari sui civili nel Borno. Inoltre l’esercito è disorganizzato, tanto che molte armi donate da Usa, Cina e Russia sono finite direttamente nelle mani di Boko Haram. Ma è indubbio che ci sia anche una volontà di capitalizzare il fenomeno da parte di certi attori politici locali, in primo luogo i presidenti di Niger e Ciad, che dal 2015 partecipano a un’azione militare congiunta contro i terroristi».

Che previsioni per il futuro avanzate voi analisti?

«È una dinamica di conflitto che non si risolverà a breve poiché legata a problemi strutturali del Nordest della Nigeria, che nessun politico sembra interessato a risolvere. Cercano di mettere una toppa e far sì che non si degeneri in troppo sangue. Parlano già di ricostruzione del Borno ma è uno specchietto per le allodole: ai bandi hanno partecipato pochissime aziende legate al potere, e la maggior parte delle città restano in macerie».

C’è un legame fra questa crisi e l’immigrazione in Europa?

«Nel Nordest della Nigeria la gente è troppo povera per avventurarsi lungo le rotte sahariane, sebbene sia vero che la pressione demografica scatenata dal conflitto destabilizzi tutta la fascia saheliana, molto importante in questo frangente storico. Però finora c’è un solo personaggio legato a Boko Haram che sia sbarcato sulle nostre coste: il nigerino Ibrahim Harun, passato da Al Qaeda in Afghanistan alla Nigeria dei giovani jihadisti. Proprio da qui è sfuggito all’arresto prendendo la rotta sahariana, per essere fermato a Lampedusa nel 2011 ed estradato negli Stati Uniti. Un unico caso, dunque».

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