sabato 22 maggio 2021
Nato il 24 maggio nel Minnesota, è il più completo per bersagli raggiunti dalla sua arte: tecnici, vocali, letterali (Nobel nel 2016), musicali, sociali... Così lo "spiegano" alcuni colleghi italiani
Bob Dylon durante un concerto a Parigi nel 2012

Bob Dylon durante un concerto a Parigi nel 2012 - Archivio Ansa

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Dici Bob Dylan e il pensiero va agli anni Sessanta, alla chitarra e all’armonica, alle risposte nel vento di Blowin in the Wind, a Knockin on Heaven’s Door o Like a Rolling Stone. E poi, con un bel salto temporale, al Nobel per la letteratura nel 2016. Ma gli 80 anni (li compie lunedì 24 maggio) di quello che è il cantautore per antonomasia sono anche, forse soprattutto, molto altro.

Abbiamo provato a farcelo raccontare da artisti e scrittori che in qualche modo hanno incrociato la sua opera sul loro cammino. Come Tito Schipa Jr., cantautore, compositore, regista, autore di tre libri di traduzioni di sue canzoni e, nel 1988, di un disco di cover (titolo eloquente: Dylaniato). «È il Giuseppe Verdi della nostra epoca – dice Schipa – grazie alla vastità delle implicazioni e dei bersagli raggiunti dalla sua arte, espressivi, comunicativi, tecnici, vocali, letterari, musicali, sociali, umani».

«È un immenso catalogo, contiene sessant’anni di storia e letteratura e musica americana» osserva rapito Alessandro Robecchi, scrittore e autore televisivo, ma anche, per anni, critico musicale dell’Unità con lo pseudonimo di Roberto Giallo. «È molto difficile chiedere: ti piace Dylan? Ma quale Dylan? C’è il Dylan folk di protesta, da Woody Guthrie al Village, c’è quello elettrico salutato come bugiardo dai talebani del folk, c’è quello blues di Love and theft. E poi c’è il Dylan cristiano rinato, millenarista, quello pop, il crooner di Murder Most Foul, il brano dell’anno scorso sull’assassinio di Kennedy, che è un salmo, un cantico su tutto quello che non abbiamo più».

Insomma, attenti a incasellarlo. Un altro scrittore, Gianluca Morozzi, ha da poco ripubblicato un suo libro che porta come titolo Bob Dylan spiegato a una fan di Madonna e dei Queen. È in verità un romanzo, non un saggio, ma è comunque un atto d’amore verso il songwriter americano. Alla domanda: cosa ti colpisce di più di lui?, Morozzi non ha dubbi: «Che ha sempre ragione. Ogni sua svolta che lascia sconcertati i fan viene capita e approvata anni o decenni dopo. Tutto quel che fa ha un senso, anche l’album natalizio Christmas in the Heart».

Dylan, ovviamente, coglie nel segno anche con cantautori e rocker italiani. Anche di generazioni lontane dalla sua. Prendiamo ad esempio i Perturbazione, che dal vivo a volte regalano una tonda, riuscita versione di It Ain’t me Babe. Tommaso Cerasuolo, il frontman della band, annota che «più la sua arte ha superato la vita e più la sua dimensione privata si è fatta eterea, impalpabile. Qualità senza prezzo nel nostro triviale presente». Invece Cristiano Godano, voce e penna dei Marlene Kuntz, che un anno fa ha pubblicato un bel disco solista, denso e intimo, Mi ero perso il cuore, in cui cita Dylan, ci parla della sua «intelligenza brillante, quella che trasuda dai testi e dalle interviste, queste ultime condite spesso da sbruffoneria e irriverenza, fastidiose per chi lo malregge, affascinanti e incantatrici per chi lo ama». Quella che si dice una personalità scomoda, «che, ad esempio, gli ha permesso di imporsi al mondo con una voce che a ben pensarci è sgradevole, nasale. Anche un po’ imbronciata e indisponente». Ma la vocalità è un elemento fondamentale nell’universo Dylan. Morozzi ricorda che «ha avuto cinque o sei voci diverse nel corso degli anni. Ad ascoltare pezzi di anni differenti sembra di non sentire lo stesso cantante». Eppure, come dice Robecchi, «nel tempo ha mantenuto quella che io chiamo curvatura dylaniana, cioè lo strascico nelle parole, un beffarsi della metrica che è un miracolo di equilibrio, di suono».

Uno dei miracoli di questo signore nato nel 1941 a Duluth, Minnesota, come Robert Allen Zimmerman. E che ventuno anni dopo è diventato Bob Dylan, mutando il nome anche all’anagrafe e pubblicando il suo primo disco. Ne seguiranno cinquanta abbondanti fra quelli in studio e quelli dal vivo, più varie ed eventuali raccolte, un patrimonio che, insieme a un numero tendente all’infinito di concerti, lo ha fatto diventare un colosso della cultura e dell’arte. Godano ricorda di averlo visto almeno una volta vacillare: «È stato in quel video che riprende le prove della hit mondiale e corale We are the world: era incredibilmente a disagio e perfettamente conscio di non essere nel posto giusto, contornato da inarrivabili giganti della musica, come Quincy Jones, Stevie Wonder, Lionel Richie, e in evidente, imbarazzante difficoltà. Eppure loro erano tutti riverenti. Una situazione spassosa e quasi tragica». Ma cosa non è stato detto, o è stato poco detto, su di lui? Per Schipa «lo si ignora quasi totalmente come autore di prose. Il Nobel gli viene dall’essere un grande scrittore, e non solo di canzoni, per quanto geniali», mentre Robecchi fa notare che «pochi artisti pubblicano, accanto all’opera, il loro studi, i bozzetti, le prove, le varie versioni, le bozze. Dylan lo fa, e volendo puoi sentire, studiare, com’è nata una canzone, cosa è diventata nel tempo, come la suona dal vivo, o con l’armonica, o col contrabbasso. Dylan studia in pubblico, lo trovo meraviglioso».

Per noi italiani è difficile parlare di lui senza tirare in ballo Francesco De Gregori, estimatore appassionato e autore di notevoli traduzioni di sue canzoni, confluite nel 2015 in De Gregori canta Bob Dylan - Amore e furto. Per Cerasuolo il rapporto fra i due è interessante «non solo nel senso che per De Gregori lui è un modello dichiarato, ma anche per il modo agrodolce e schivo che hanno entrambi di invecchiare sempre meglio, come vino di qualità olimpica». Quando Dylan compì 50 anni, il cantautore romano scrisse un articolo che cercava il bandolo della matassa dylaniana. E che si chiudeva suggerendo che «è nel suo assoluto rigore e nella grande capacità di non rimanere mai prigioniero di se stesso e del proprio mito, nella assoluta libertà di muoversi, di tradirsi e di negarsi in continuazione, che può essere rintracciato il filo coerente del suo percorso di artista e di uomo, forse solo in apparenza sconnesso e contraddittorio». Una riflessione che vale, tale e quale, ancora adesso.

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