venerdì 29 luglio 2016
​La storia "bella e maledetta" di Leni Riefenstahl, grande ammiratrice di Hitler che la incaricò di filmare i suoi Giochi
BERLINO 1936. Riefenstahl e le dee di Olympia
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Se le Olimpiadi di Roma 1960 sono state le «più umane» nella storia dei Giochi, allora l’edizione di Berlino 1936 potremmo definirla «bella e maledetta». Das blaue licht, «La bella maledetta» è anche il titolo del film espressionista della grande narratrice per immagini di quei Giochi, la regista Leni Riefenstahl. Una donna fatale la berlinese, ex ballerina costretta al ritiro anticipato per una lesione al menisco, attrice e incantatrice - sulla falsa riga di Marlene Dietrich del pubblico tedesco che se ne innamorò perdutamente alla visione della pellicola romantica La montagna dell’amore. Film che uscì nelle sale esattamente dieci anni prima delle Olimpiadi del Führer, il quale a sua volta non rimase immune dal fascino magnetico dell’eclettica Leni che ricambiò con una lettera da ammiratrice, spedita nel 1932, in cui scrisse che desiderava conoscerlo ardentemente. Hitler, al di là delle dicerie sulla possibile liaison, non sappiamo come ricambiò tanto ardore, ma è certo che gli assegnò l’incarico di entrare a far parte dei progetti della “Camera Cinematografica” creata dal ministro della cultura e della propaganda, Joseph Goebbels. Dopo aver girato il film sul congresso di Norimberga, Il trionfo della volontà, alla Riefenstahl venne commissionata la grande opera di divulgazione del regime nazista, il documentario sulle Olimpiadi di Berlino, Olympia. Un’impresa titanica, quasi una sfida agonistica. Alla guida di una squadra di quaranta operatori l’infaticabile Leni filmò tutte le gare. Quattro ore di girato (riproposti nella versione integrale e restaurata) di quei Giochi in cui, oltre alla stella nera di Jesse Owens, protagoniste assolute furono le donne che, in epoca “pre-quote rosa” ottennero due medaglie in meno degli uomini, ma parteciparono soltanto a sei discipline contro le ventitré in cui si cimentarono i maschi. Leni girava con la sua piccola camera e fotografava a ridosso della pista d’atletica del monumentale Olympiastadion, progettato dall’architetto Speer per contenere la «maggior parte del mondo», 100mila spettatori. Il suo sguardo attento non perse mai di vista quelle eroine come lei, a cominciare dalla nostra Ondina Valla che arrivò alle Olimpiadi berlinesi con quattro anni di ritardo. Ai Giochi di Los An- geles del 1932 sarebbe stata l’unica donna della spedizione azzurra, e il Duce, complice anche il Vaticano, preferirono lasciarla a casa. Del resto il presidente del Coni, il gerarca Achille Starace era stato tassativo: «La donna deve essere eliminata dallo sport».

 

Per il più moderato “sciupafemmine” Benito Mussolini, le donne dovevano essere prima di tutto delle brave mogli e delle madri prolifiche affinché dessero alla patria i figli necessari per evitare di diventare una misera colonia ed assurgere invece al ruolo imperiale di potenza da «60 milioni di abitanti». Ondina, nata Trebisonda in onore della misteriosa città turca, si allenò in silenzio per quattro anni per farsi trovare pronta all’appuntamento con la storia. Davanti alla cinepresa della Riefenstahl inscenò una finale epica con l’amica e rivale di sempre, Claudia Testoni, la quale però rimase fuori dal podio, mentre Ondina mandò in tilt il primo cronometraggio fotoelettrico brevettato dallo svizzero Tissot che decretò la sua vittoria per un centesimo appena di vantaggio sulla canadese Elizabeth Taylor (omonima) e la tedesca Steuer. Dopo la premiazione, Hitler che in fatto di sport femminile la pensava più o meno come il Duce, si congratulò e l’unica donna a cui strinse la mano fu proprio la Valla, l’emblema della giovinezza solare italiana. «Il Führer mi disse anche delle parole in tedesco, ma sinceramente non ho capito…», raccontò Ondina di ritorno a casa. Dopo il trionfo che le regalò la sua Bologna fu ricevuta in Vaticano da papa Pio XI e a Palazzo Venezia Mussolini gli consegnò  un assegno di cinquemila lire. 

 

L’occhio dell’aquila Leni poi si focalizzò sulla bionda Gisela Mauermayer, oro nel lancio del disco che stregò la Germania e in primis il Cancelliere del Reich che ne apprezzava la totale devozione all’Hitlerjugend in quanto appartenente alla “Bund Deutscher Madel”, la Lega delle ragazze tedesche. Tra un bacio e l’altro di nascosto, ma neanche troppo, con il re del decathlon, l’americano Glen Morris, la Riefenstahl proseguiva il suo lavoro di documentazione eternando le grandi vittorie della squadra tedesca e purtroppo anche le sconfitte che però minavano l’immagine della superpotenza, anche olimpica. 

 

Ma l’affronto più grave alla Germania lo fecero le ragazze olandesi della staffetta 4x100. Trascinate dalla futura “mammina volante” Fanny Koen, prima donna a vincere 4 ori olimpici (accadde ai Giochi di Londra 1948 quando si presentò trentenne e il giornalista Jack Crum fu “preveggente”: «Troppo vecchia per correre!») le olandesi si presentarono ai nastri di partenza vestite con i colori della loro bandiera per protestare contro gli «invasori nazisti». La grande sconfitta tedesca fu però quella di Dora Ratjen che non salì sul podio nella finale del salto in alto. Una ferita aperta che suscitò scandalo: in realtà l’atleta si chiamava Hermann e gli allenatori federali che «la/lo» seguivano erano al corrente della sua vera identità sessuale. La finta Dora venne smascherata solo a guerra finita. La prima a denunciare «l’uomo Ratjen» era stata la splendida Gretel Bergmann.

 

Era lei che avrebbe dovuto rappresentare la Germania nel salto in alto, forte anche del titolo tedesco conquistato alla vigilia dei Giochi. Ma Gretel apparteneva alla squadra ebraica Schild che disse «no» ad entrare nell’Associazione di atletica leggera tedesca. Un rifiuto che pagò con l’esilio forzato in America: la Bergmann risiede ancora, a New York, alla veneranda età di 102 anni. Visse fino a centouno anni la divina Leni - morì nel 2003 - che non ebbe modo di filmare Gretel (alla Bergmann nel 2009 il regista Kaspar Heidelbach ha dedicato il film Berlin 36) e pagò anch’essa con l’esilio il marchio di «regista del regime nazista» per via di quel film sulle Olimpiadi per il quale ci vollero due anni di montaggio prima di proiettarlo in sala. 

 

Un film bello, considerato tra i cento più importanti della cinematografia di sempre, ma “maledetto”. Leni dopo quei giorni memorabili di Berlino ’36 perse per sempre il suo grande, forse unico amore, il “Tarzan” Morris che tornò negli Stati Uniti per sposarsi con Karen. Olympia ottenne la Coppa Mussolini alla Mostra internazionale del cinema di Venezia, ma alla caduta del nazismo la Riefenstahl fu bandita da tutti gli studi cinematografici. Per ricostruirsi una nuova immagine incominciò a vagare per il mondo, girando altri documentari in Africa dove a ottant’anni scoprì di possedere ancora quello spirito olimpico di Berlino ’36: era “campionessa over” di immersioni subacquee. L’ultimo messaggio, Leni lo mandò proprio dai fondali oceanici filmando Impressionen unter wasser un documentario di sole immagini con la musica di Giorgio Moroder. Suggestivo, ma mai quanto quel capolavoro diOlympia.

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