venerdì 7 settembre 2018
A Basilea, alla Fondazione Beyeler, in mostra quaranta opere del controverso pittore che dipinse ragazzine in atteggiamenti apparentemente morbosi ma che in realtà testimoniano la sua ricerca formale
Balthus, "La rue" (1933)

Balthus, "La rue" (1933)

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Come si guarda un quadro di Balthus? La domanda non è oziosa, perché è nei fatti il cuore della pittura stessa di Balthus, quell’elemento che lo sposta dalla banale contrapposizione tradizione-avanguardia e lo colloca nel pieno della modernità. A quale tentazione dobbiamo resistere o cedere? Il riconoscervi l’espressione di una pulsione morbosa, persino pedofila, com’è stato a volte insinuato (ipotesi per altro rigettata dall’artista)? Il negarla in favore di soluzioni formali, filosofiche, estetiche? È il nostro sguardo o quello dell’artista? L’ambiguità inestricabile è la trappola tesa attraverso una pittura magnetica e magistrale da Balthus con pazienza sorniona – lui che nel-l’autoritratto del 1935 si autoproclama “re dei gatti” – trasformando ogni sua tela in uno specchio (un altro refrain del suo repertorio visivo) che restituisce il profondo.

La Fondazione Beyeler a Basilea fino al 1° gennaio 2019 propone una mostra – quaranta quadri, tra cui punti fermi come La toilette de Cathy e La Rue del 1933, La jupe blanche (1937), Les Enfants Blanchard (che fu acquistato da Picasso) del 1937, Thérèse e Thérèse revant (1938), Les Beuax Jours (194446), La Partie de cartes (1948-50), il monumentale Passage du Commerce-Saint-André (1952-54), La Chambre turque ( 1965-66) – che attraversa l’intera carriera del pittore, il cui vero nome era Balthasar Klossowski de Rola. Sebbene sia nato a Parigi (nel 1908) e a Parigi avrebbe nella maturità frequentato i principali artisti, scrittori e intellettuali, la sua formazione e le sue scelte culturali lo incardinano nell’asse che dalle regioni centrali scende verso l’Italia. I genitori sono di origine polacca; trascorre l’infanzia tra Berlino, Berna e Ginevra; il poeta Rainer Maria Rilke è amante della madre e mentore del giovane Balthasar; il viaggio in Italia che compie a metà degli anni 20, dove scopre Piero della Francesca e Masaccio è per lui di fondamentale importanza. Anche per una sorta di snobismo aristocratico rifiuta le avanguardie per ancorarsi alla nobiltà della tradizione con lo stesso spirito modernista che si riconosce in Italia a pittori come Casorati e Carrà. In un certo senso gran parte del suo lavoro può rientrare nella famiglia del realismo magico; e se Balthus appare interessato a quella naïveté incongrua e bambocciante del Doganiere, seppure virata di segno, che tanto affascinò gli italiani, sono indubbi negli anni 30 i punti di contatto con la cruda ipersensibilità dalla Nuova Oggettività tedesca.

Il fatto è che la pittura di Balthus è estremamente colta e insieme personalissima: ai corpi come solidi di Piero si intrecciano rimandi a Poussin, al Quattrocento tedesco, Manet e Cézanne, le bionde veneri di Tiziano, diffusi echi caraveggeschi, moltissimo Picasso (esplicito omaggio all’amico pittore è Le Rêve II del 1956-57) o ancora Matisse… Sono illuminazioni iconografiche, spunti stilistici, colori e patine. Il puzzle di citazioni allestito da Balthus nei suoi quadri è completato da rimandi all’infanzia e soprattutto alla dimensione magica, a partire dall’amata Alice in Wonderland di Lewis Carroll (una storia simbolica e misteriosa di iniziazione e passaggio) ma anche le illustrazioni popolari dei racconti di Struwwelpeter, raccolta nota in Italia come Pierino Porcospino, dove – come nella migliore tradizione della fiaba tedesca – il moraleggiante si intreccia con il fantastico e l’orrore. A fronte della vastità della cultura visiva, i dipinti di Balthus sono costruiti su un lessico curiosamente ridotto che si definisce subito, fin dalla fine degli anni 20, in figurine che da marginali finiscono per diventare protagoniste del quadro, in un complesso meccanismo di autocitazioni. È per esempio il caso dei bambini reclinati nell’atto di giocare ai bordi di una fontana o mentre raccolgono una palla da tennis nell’erba che diventeranno i motori formali delle grandi composizioni, applicati come in un sistema di permutazioni anche al di là del primitivo rimando all’infanzia, come ad esempio per il baro della Partie des cartes.

Balthus dipinge solo bambini o anziani. Salta l’età di mezzo. I suoi corpi rallentano fino a sfiorare l’immobilità. È l’eco di Piero, ma la luce non è cristallina quanto invece melanconica e l’umore intorbidito. Le sue figure più che fuori dal tempo (non si pongono in una posizione metafisica) si collocano in una sospensione del tempo, un istante la cui durata è estesa fino al punto di sfuggire alla legge fisica. Una lentezza applicata da Balthus al suo lavoro, che procedeva con estrema calma. «Davvero lentezza e ritardo, e la pazienza a essi associata – scrive Raphaël Bouvier nel suo testo in catalogo – giacciono al cuore della sua pratica artistica». In sette decenni di carriera le tele di Balthus sono solo 450 circa. Ma soprattutto quello eternato è spesso un momento di apparente instabilità o scomodità. Pierre Klossowski parla di «immobile pantomima», indicando una matrice teatrale nel lavoro del fratello, ma è centrale e pervasiva anche la dimensione del sogno, dove i limiti dello spaziotempo saltano e le regole vengono sovvertite. Balthus, come ricorda Bouvier, «definisce le immagini ge- neralmente in termini temporali, come l’incapsulamento di “un’innocenza che viene finalmente colta, un momento strappato dal disastro del tempo che passa”». L’artista era nato il 29 febbraio: «L’ho sempre notato con un pizzico di ironia, – diceva – come un marchio di stranezza ». Un fatto sottolineato da Rainer Maria Rilke, che così scriveva al giovane pupillo: «A mezzanotte un varco sottile si apre sempre tra il giorno che è finito e quello che comincia, e una persona molto agile e capace di scivolarci dentro riuscirebbe a sfuggire al tempo. È lì mio caro B..., che tu dovresti insinuarti nella notte del 28 febbraio ». La frase di Rilke dovette restare impressa nell’artista. Il fatto è che Balthus dipinge esattamente quel punto in cui una cosa non è più e non ancora, esattamente come nella luce del crepuscolo, quando non è più giorno e né è già notte, il tempo è sospeso. Balthus sembra dipingere le sue bambine proprio nel passaggio in cui infanzia e pubertà coincidono e quindi si annullano reciprocamente. Anche questo è un momento di sospensione: della vita.

Bathus, 'Thérèse' (1938)

Bathus, "Thérèse" (1938) - Digital Image 2018 (c)The Metropolitan Museum of Art/Art Resource New York/Scala, Florence

L’innocenza delle bambine di Balthus è in un certo senso preadamitica: non conosce il bene e il male, il lecito e l’illecito, il morale e l’immorale – non perché non li compiano (un bambino può uccidere una lucertola con un sadismo che lascia interdetto un adulto) ma perché non ha la coscienza dell’atto. L’innocenza dei bambini non è ingenuità, è uno stato di immunità. I gatti che fanno capolino nei quadri, alter ego del pittore, sono una presenza diabolica come il serpente nel giardino: ma insidiano le bambine o lasciano cadere la goccia del dubbio sul nostro sguardo e quindi sulla nostra coscienza? La sospensione del tempo può essere sospensione di giudizio? Lentezza, mistero, ambiguità, noia, carattere: nell’essere un nodo inestricabile i quadri di Balthus sono allora tutti autoritratti. C’è l’artista nella figura volitiva di Thérèse, protagonista di un dittico superbo. Bambina altezzosa e sfrontata, magnetica e inquietante, innocente e tentatrice Thérèse è la pittura stessa di Balthus.

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