venerdì 31 luglio 2015
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Ciò che non uccide fortifica. Un detto che non vale per chi è sopravvissuto ai tragici bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, che devastarono le due città giapponesi rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945. Molti di questi scampati all’esplosione nucleare morirono per le conseguenze delle radiazioni, che causarono loro necrosi degli organi interni, leucemia o altre malattie mortali; oppure, anche dopo anni, per le schegge di vetro ancora piantate nei loro corpi, rimaste dentro di loro silenti, avvolte da bozzoli di sebo, e improvvisamente risvegliate. E non solo quelle due città, rase al suolo dalla luce potentissima delle due esplosioni, ne furono devastate: lo è stato l’intero Giappone, anzi l’intera umanità, travolta dalla consapevolezza, indiscutibile, che la morte proveniva dall’umanità stessa, da quella bomba “a reazione di fissione nucleare” che gli scienziati, che ne furono i creatori, all’epoca considerarono un successo da festeggiare, senza a volte rendersi conto delle infinite tragedie a catena che avrebbe provocato. Sono passati ormai settant’anni da quegli eventi che hanno cancellato moltissime vite, decine di migliaia in un solo istante. Un tempo notevole, quello che basta per esempio per pubblicare l’opera di un artista scomparso senza dover pagare i diritti agli eredi. Ma il mondo non deve dimenticare questi due episodi della Seconda guerra mondiale, i più gravi eventi bellici della storia. Con implicazioni che, come afferma la grande scrittrice giapponese Kyoko Hayashi, nata a Nagasaki nel 1930 e colpita dalla bomba nel 1945 quando era una studentessa, nel suo sconvolgente libro di racconti intitolato appunto Nagasaki (traduzione di Manuela Suriano; Gallucci, pagine 240, euro 18,00), non sono una semplice questione politica e storica, ma «riguardano tutti noi». Sempre, nel presente, come se non fosse passato nemmeno un minuto da tutti quei morti, da tutto quel dolore, quella devastazione. Perché dobbiamo tentare di capire come mai scienziati, che pensavano al benessere progressivo dell’umanità, abbiano potuto concepire un ordigno distruttivo di tale potenza. Perché bisogna ripensare ai motivi per cui fu presa la decisione di usare il prodotto delle loro ricerche, forse proprio per sperimentarne la portata reale approfittando di un conflitto militare in corso, con effetti tali che non si osò più ripetere un gesto tanto grave. Perché, anche, bisogna tentare di scoprire quali conseguenze possano avere ancora oggi quelle radiazioni fatali sulle cosiddette vittime di seconda generazione, cioè su chi è figlio di hibakusha – letteralmente “persone esposte alla bomba” – come vennero ufficialmente definiti gli scampati alla distruzione di Hiroshima e Nagasaki.  Non si possono trascurare nemmeno le infinite implicazioni che riguardano la solidarietà umana nella tragedia: nei momenti più drammatici, chi sopravvisse aiutò i propri simili colpiti, oppure pensò solo alla propria salvezza, portando con sé fino alla fine l’angoscia di non aver agito per il meglio, di fronte alla speranza sia pure minima di poter salvare un ferito? E poi, perché alcuni sono stati annientati dalla violenza mortale della bomba e altri sono stati risparmiati? Sono le domande che ci poniamo sempre di fronte al mistero della morte, dopo la perdita di una persona cara o semplicemente conosciuta, intensificate dalla crudeltà di questa tragedia. Sei sopravvissuti di Hiroshima raccontano, nel libro reportage del giornalista americano John Hersey Hiroshima (traduzione di Annalisa Carena: Skira, pagine 176, euro 16,00), quanto sia stato sottile per loro il confine fra morte e salvezza: una decisione minima, entrare o meno in casa, salire su un mezzo piuttosto che su un altro, svoltare in una certa direzione a un bivio. Sono le domande sulle nostre scelte che in fondo ci poniamo ogni giorno.  La storia del mondo è stata cambiata dalla tragedia di Hirsohima e Nagasaki, ma possiamo chiederci se lo sia stata abbastanza. I governi delle maggiori potenze reagirono con orrore alla tragedia del Giappone, ma poi si armarono a loro volta con quella che in origine era definita la Bomba A. E ancora oggi la scienza procede per la strada della ricerca militare, senza preoccupazioni per altre possibili conseguenze. Ci si chiede da più parti se abbia senso continuare a servirsi dell’energia nucleare, con il ricordo vivo, negli occhi della mente di tutti, degli effetti che la potenza atomica può avere quando è sprigionata nel modo sbagliato, anche solo per un lieve incidente, o per una calamità naturale che contribuisce alla distruzione. La morte, per quasi duecentomila persone, in quelle due mattine di agosto del 1945 è arrivata in forma di immenso bagliore di luce. Nessun essere vivente che sia stato colpito direttamente è stato risparmiato. Da allora, dopo aver sentito il racconto dei sopravvissuti, non potremo più pensare alla luce del sole soltanto come al simbolo della vita che ci nutre.
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