mercoledì 25 gennaio 2023
L’autore di serie cult di Rai 1 come “Doc” e “Blanca”, spiega le dinamiche lavorative delle serie tv che hanno rivoluzionato le produzioni e il rapporto di fruizione del telespettatore
A destra autore di serie tv Francesco Arlanch

A destra autore di serie tv Francesco Arlanch - .

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Lo stralcio di intervista a Francesco Arlanch è un’anticipazione del saggio di Stefania Garassini,“Lo schermo dei desideri. Comele serie tv cambiano la nostra vita” (Edizioni Ares. Pagine 184. Euro 15,00) che indaga i contenuti, le logiche di realizzazione e di orientamento che ci consentonodi comprenderle a pieno.

«Come un cuoco è responsabile di ciò che mangiano i suoi clienti, così un autore lo è delle storie che “mette in tavola” per i suoi spettatori». È la sintesi di Francesco Arlanch, sceneggiatore e autore di alcune tra le serie di maggior successo degli ultimi anni: le più recenti sono Blanca e Doc - nelle tue mani, entrambe prodotte da Lux e andate in onda su Rai 1, disponibili su RaiPlay e Netflix. « Le storie non lasciano mai il tempo che trovano – continua Arlanch –. Se dopo due ore di film o dodici episodi di una serie non fossimo diversi da quando abbiamo cominciato, non cominceremmo neppure». È evidente quindi, al di là del dibattito teorico, che chi scrive sia in qualche modo responsabile anche di come il proprio racconto viene recepito dagli spettatori.

Come incide nel suo lavoro, la consapevolezza di avere una responsabilità verso il pubblico?
È molto importante il lavoro di squadra. Io come autore sono il primo motore della storia. Ho una responsabilità riguardo a ciò che scrivo e a come imposto il racconto, in base alla mia esperienza e all’idea che ho dello spettatore. Ma il lavoro finale sarà figlio anche della squadra con cui lavoro. Per questo per uno sceneggiatore è molto importante decidere in che squadra vuole giocare, proprio perché sa che il prodotto finale sarà il risultato dell’impegno di un intero gruppo, quindi sarà chiamato a rispondere di un lavoro che non è soltanto suo. Io spero che la mia firma vada su prodotti che si pongono il problema del loro effetto sullo spettatore, allora so che non posso fermarmi alla sceneggiatura, ma devo anche preoccuparmi di chi metterà poi concretamente in scena la storia.

Come si declina questo atteggiamento di fondo, di consapevolezza della propria responsabilità, quando si tratta di raccontare anche i lati negativi, oscuri dell’esperienza umana?
Non esiste una ricetta valida per tutto. Ogni storia è costruita come un viaggio, e il viaggio è interessante quando attraversa le zone oscure dentro e fuori di noi. Scrivere storie significa «muoversi nel territorio del diavolo», diceva Flannery O’ Connor. Il problema è come riuscire a portare con te gli spettatori attraverso questo viaggio un po’ pericoloso, visto che ogni storia è efficace soltanto se conduce il proprio pubblico in territori significativi e fa vivere esperienze che gli spettatori percepiscono come autentiche. Non ti posso portare al castello incantato per una scorciatoia. Devo condurti attraverso il bosco. Ti faccio avere paura come si ha paura nella vita. Ti faccio rischiare come si rischia nella vita, per poi intravedere insieme il sentiero giusto per arrivare al castello incantato. Se lo spettatore sente che c’è qualcosa di falso, che non si è passati davvero attraverso la parte più rischiosa, se i personaggi non prendono veramente delle decisioni difficili, allora la storia finisce per annoiare, ma soprattutto l’autore non è stato corretto con il suo pubblico. Lo spettatore ti offre qualcosa di prezioso, le sue ore di tempo libero, ha bisogno di riflettere su sé stesso in un modo che non sia faticoso ma mediato da altri personaggi. La tua responsabilità è ragionare insieme a lui, vivere con lui esperienze emotive significative. In questo percorso così prezioso e delicato, perché gli spettatori ti mettono in mano il loro cuore, la tua responsabilità come autore è portarli in quel bosco e farli arrivare al di là.

Molti teen drama offrono un’immagine disperata del mondo, mostrando la prevalenza di situazioni di disagio. Tanto che al termine di alcune serie vengono forniti numeri di servizi di assistenza per varie problematiche psicologiche o di prevenzione del suicidio, com’era il caso di Tredici. Qual è la sua opinione?
Questo atteggiamento mi pare un po’ ipocrita. Il caso più eclatante è proprio Tredici. Il problema di quella serie non è tanto la scena del suicidio della protagonista, poi tagliata da Netflix, è piuttosto il fatto di raccontare la storia di una ragazza suicida in modo da mostrare come proprio attraverso quel gesto lei riesca a ottenere la vittoria su tutti gli altri. Hannah Baker è diventata un’influencer suicidandosi e tutta la serie è imperniata su questo. È un inno al suicido come forma per raggiungere la fama e il potere sugli altri. Credo che questo sia un caso serio di coscienza per un autore, che deve capire se sia giusto rappresentare così il suicidio. Perché si può certamente mettere il numero del servizio di prevenzione e rimuovere la scena più cruda, ma intanto sono state prodotte tredici puntate di glorificazione del suicidio. È chiaro che poi i ragazzi sono portati a imitare, perché siamo tutti creature emulanti e le storie sono macchine per suscitare imitazione.

Luca Argentero e Matilde Gioli in una scena della serie di Rai1 “Doc - Nelle tue mani”

Luca Argentero e Matilde Gioli in una scena della serie di Rai1 “Doc - Nelle tue mani” - .

Lei ha dichiarato che attraverso le vicende che racconta vuole aiutare i suoi spettatori a «portare a casa la giornata». Come riesce a ottenere un simile obiettivo?
Non scomodo teorie particolari, ma mi rifaccio piuttosto alla mia esperienza di bambino, prima, e di giovane spettatore, poi, ovvero la sensazione che provavo quando la sera andavo a letto dopo aver visto qualcosa in tv o al cinema. Ciò che mi guida nel mio lavoro è il desiderio di regalare agli spettatori quello stesso tipo di emozione, quel momento di ricomposizione interiore, quel sentirsi a casa nel mondo. Tutti noi quando scriviamo vogliamo dire qualcosa, magari lo facciamo inconsciamente ma dentro la nostra scrittura c’è un’intenzione che possiamo chiamare “morale”, vogliamo portare lo spettatore a guardare il mondo come lo vediamo noi. E questo è inevitabile, può essere negato o rimosso, ma è così. Io cerco di offrire ai miei spettatori quel tipo di sensazione attraverso le storie che racconto. È un’operazione consolatoria? È edificante? La domanda me la pongo spesso, e certamente c’è il rischioscorciatoia, voler dare una lezione morale senza preoccuparsi che la storia funzioni. Però in questo caso si tratterebbe di una serie o un film fallito, e me ne accorgerei dai dati auditel oppure chi legge la sceneggiatura mi segnalerebbe il problema. Sono sempre stato molto sensibile al valore di quel paio d’ore dopo cena in cui si sta insieme; nella mia esperienza familiare erano momenti speciali (adesso con le piattaforme non sono più soltanto quelle due ore, il tempo che dedichiamo alle storie è molto di più). Ho sperimentato quanto è prezioso affidare la fantasia, il cuore, a qualcuno, e ritrovarselo più grande. Questa è la cosa che cerco. È una sensazione di per sé semplice: come quando racconti una favola a un bambino e vedi gli occhi che si sgranano perché è contento. E lo puoi fare raccontando la cattura di un latitante a Casal di Principe o Anna Karenina. Tutto questo può servire a far passare due ore piacevoli d’intrattenimento in cui le persone compiono insieme a te un viaggio che ricorderanno volentieri. Una storia funziona se qualcuno vuole sentirsela raccontare un’altra volta.

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