mercoledì 13 luglio 2022
Fa discutere la mostra al Mart sull'Evola pittore che trascura la sua successiva teorizzazione di un “razzismo spirituale”: va letto ed esposto, sì, ma per cercare di capire, non di riabilitare
Julius Evola

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Sta facendo molto discutere sulla stampa la mostra che il Mart dedica fino al 18 settembre ai dipinti di Julius Evola, “da un’idea di Vittorio Sgarbi” che del museo roveretano è il presidente factotum. Tra il 1915 e il 1921 il giovane Evola, prima di approdare alla produzione filosofica radicalmente antimodernista, antidemocratica ed esoterica, è pittore e aderisce prima al Futurismo e poi a Dada. Nell’idea di Sgarbi, la mostra al Mart si preoccupa di sottrarre definitivamente, dopo una ripresa negli anni 60 da parte di Enrico Crispolti, l’opera pittorica di Evola alla damnatio memoriae. Come Sironi, Martini e Terragni insomma, indubitabilmente fascisti, sui quale era scesa una innominabilità attenuatasi a partire dagli anni 80 e ormai scomparsa. Oggi si parla serenamente di Céline e Pound: non ignorandone o “perdonandone” il fascismo, ma comprendendone la dimensione storica e umana. Quindi allo stesso tempo nonostante e in virtù del fascismo. Perché su Evola no? In un certo senso, forse perché le “colpe” ideologiche di Sironi o Terragni non sono paragonabili a quelle di Evola, teorizzatore di un “razzismo spirituale” che sposta la rozza discriminazione antropologica operata dal fascismo verso una di stampo metafisico, ancora più devastante e inconsistente, in sintonia col nazismo. Forse perché il suo peso ideologico non è scemato, essendo divenuto figura di riferimento per Msi e destra extraparlamentare e oggi per tutto uno sciame internazionale di neofascismi e suprematismi. Questi di Sironi e Terragni non sanno che farsene (ci provano con Pound, anche se probabilmente non lo capiscono). Di Evola invece sì. La prima pietra è stata lanciata su “Domani” da Demetrio Paparoni che ha contestato l’impianto curatoriale della mostra, ossia il ruolo di rilievo di Evola nell’ambito delle avanguardie, sulla base di una lettura qualitativa delle opere («A farla breve come pittore Evola non spicca né per abilità né per originalità», scrive) mentre il filosofo Elio Cappuccio ha contestualizzato il sottotitolo della mostra (quanto meno azzardato) “Lo spirituale nell’arte” rispetto all’esoterismo evoliano e al suo portato contemporaneo. Insomma nessuna damnatio: Evola è stato dimenticato perché pittore mediocre. Tra le risposte quelle di Luigi Mascheroni sul “Giornale” e di Luca Beatrice su “Libero”, che vedono nell’intervento la riprova della damnatio: Evola è una figura complessa, non riconducibile in toto al fascismo (e in effetti lo superava a destra), sulla quale gravano i pregiudizi della vecchia ideologia. I quadri sono esposti e ognuno può farsene un’idea, ma si può dire con una certa serenità che se il suo contributo al Futurismo è meno che secondario, più significativa è invece la sua adesione a Dada, non fosse altro per lo scarso consenso che raccolse il movimento in Italia. «Evola annuncia il suo “suicidio artistico”, avvenuto, nel 1922 – scrive Sgarbi in catalogo – . Quello che farà dopo esce dai confini dell’arte figurativa, ed è la drammatica e titanica testimonianza di un sopravvissuto. Antagonista del mondo moderno, che lui stesso aveva contribuito a far nascere». Ma sarebbe più opportuno leggere l’intero Evola come fenomeno proprio del mondo moderno, che è tutto fuorché monolitico. Forse il rifiuto della pittura astratta (che per altro riprenderà a praticare negli anni 60) andrebbe visto in quell’ampio fenomeno di ritorno all’ordine che in Evola sembra corrispondere alla ricerca di una pars costruens, per quanto controversa e non più artistica, dopo la pars destruens. A garantire la continuità, oltre al radicalismo, è proprio la natura di “mistica” del dadaismo – Evola parla di Dadaismo iniziatico – o almeno di una sua parte, come ad esempio in Hugo Ball (che infatti, come Evola, abbandonerà l’arte per la filosofia, e la teologia, politica). È questa, ad esempio, una questione al centro degli studi di Massimo Donà. Ma questa dimensione misticheggiante – e non di rado mistificante –, la cui assenza nel Futurismo ne motiva il distacco, in Evola ha poco a che fare con lo spirituale teosofico di Kandinskij e Mondrian, altrettanto gnostico ma meno esoterico, e ha molto a che fare invece con l’Evola pensatore. Ora, il catalogo evita di esplorare i legami tra Evola pittore ed Evola filosofo. Tutto è ridotto a una questione “spirituale”. Il problema sta qui. È stato sottolineato che la mostra evita riferimenti non solo alla spinosa questione ideologica ma anche a tutto ciò che Evola è stato (orientalista, storico delle religioni...): ma questa è una aggravante. Per quanto Sgarbi abbia risposto che, poiché ha smesso di dipingere prima del fascismo, non ha senso giudicare la sua pittura sul “poi”, non esistono tanti Evola che si possono assumere a piacere. Proprio per la complessità drammatica della figura e la sua importanza, il suo lavoro pittorico non può non essere inserito nel quadro più grande. Esponiamo Evola, leggiamo Evola: ma non per riabilitarlo da una damnatio memoriae. Se così fosse faremmo apologia o piagnisteo, non storia. A Evola serve la storia.

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