lunedì 13 luglio 2015
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Intervistare Alberto Angela non è affatto un’impresa facile. Non perché sia una persona poco disponibile, anzi. Solo che, prima di tutto, è molto impegnato, dovendosi dividere tra sopralluoghi, riprese e registrazioni di Passaggio a Nord-Ovest e Ulisse, il piacere della scoperta, i suoi programmi ai quali ora, dopo il successo di Stanotte al Museo Egizio di Torino, si sono affiancati anche i progetti per alcuni nuovi speciali. Poi, capita spesso che, durante la chiacchierata, sia lui a fare qualche domanda in grado di spiazzare. Mentre parlavamo per questa intervista, ad esempio, mi ha chiesto a bruciapelo il significato, in un’ottica evolutiva, dei capelli bianchi e, davanti alla mia perplessità, mi ha spiegato in maniera estremamente semplice che «sono un segnale, per il gruppo, che quell’individuo è un tesoro di esperienza per tutti e, dunque, è utile. Chi ha i capelli bianchi, insomma, è importante». In quel momento ho capito le ragioni del suo successo e lui me le ha confermate: «Se vuoi fare divulgazione, su un qualsiasi argomento devi fare le stesse domande che farebbe chiunque: il tuo barista, il notaio. E a quelle devi rispondere, entrando nel cuore delle persone attraverso la mente».In che modo?«C’è bisogno di qualcuno che racconti la scienza o la cultura e lo faccia in maniera comprensibile. La gente deve arrivare a dire: “Ho capito quello che hai detto, dunque di te mi fido”. Nei dieci anni in cui ho lavorato come ricercatore ho sempre sentito che mancava un intermediario e mi sono chiesto: perché queste cose devono rimanere confinate nei libri o nei circoli scientifici e culturali e la gente non le sa?».È questo il motivo per cui ha deciso di cominciare a fare televisione?«Il mio inizio è stato del tutto casuale, per dieci anni ho fatto scavi e non ho mai pensato al mondo dello spettacolo. Poi, un giorno, sono stato ospite nella tv svizzera e, visto che in diretta me la cavavo abbastanza bene, abbiamo fatto dieci puntate di Albatros. La mia esperienza televisiva sarebbe rimasta confinata in Svizzera se l’allora Tmc non avesse acquistato il programma per trasmetterlo in Italia». Dunque non è vero, come qualcuno crede, che lei abbia voluto seguire le orme di suo padre Piero?«Non l’ho fatto io né l’avrebbe voluto lui. Dal punto di vista professionale ci siamo incontrati quando ero già adulto: abbiamo cominciato scrivendo un libro insieme, lui giornalista ed io antropologo. Più che padre e figlio, eravamo colleghi. Anche perché la scienza unisce le generazioni: stimola a pensare e a farlo insieme». Il cognome Angela, però, l’ha aiutata.«È un’arma a doppio taglio: da un lato suscita curiosità e attenzione nei tuoi confronti, dall’altro non ti viene perdonato nulla. Diciamo che, alla fine, più che il cognome conta il nome. Come nel calcio: puoi anche chiamarti Maldini ma se non fai gol…».Quando e come si fa gol nella divulgazione televisiva? «Quando si diventa credibili. Al di là di ciò che comunemente si crede, la tv non mente: se un conduttore è simpatico, lo è anche nella vita. Certo, la credibilità devi conquistartela sul campo: né io né mio padre, ad esempio, abbiamo mai fatto pubblicità né ospitate in qualche programma per sparare sentenze. È il prezzo che paghiamo perché, stando a metà tra la cultura e lo spettacolo, è necessario trovare un certo equilibrio. Sul come, invece, direi che è fondamentale l’educazione: attraverso lo schermo, noi entriamo a casa della gente e, quando si va a trovare qualcuno, non si urla. Quando faccio un programma, cerco di parlare e di comportarmi come se fossi seduto a tavola con chi mi guarda».Credibilità, educazione: è per questo che è risultato primo nella classifica del Qualitel, l’indice che misura come il pubblico percepisce i programmi del servizio pubblico?Avvenire è stato uno dei pochi giornali, se non l’unico, a scriverlo e questo la dice lunga sul tema della qualità televisiva. Io credo che la gente percepisca l’atteggiamento diverso di chi non si mette dalla parte della grande cultura, quella inarrivabile con la “C” maiuscola, ma dalla loro. Si dice che la cultura è ciò che ti rimane quando hai perso tutto e questo non può valere solo per alcuni. Dalla cultura all’arte, il passo è breve. E lei, poche settimane fa, ha proposto in tv “Stanotte al Museo Egizio” che ha avuto ottimi ascolti. Possiamo immaginare che si sia trattato del primo di una serie dedicata all’arte?«L’arte è l’espressione del bello declinata nelle varie civiltà, non possiamo prescinderne, soprattutto perché viviamo in un Paese che ha un patrimonio unico al mondo: immaginando un libro di storia, noi ne possediamo tutte le pagine, sin dalla preistoria. La serata dedicata al Museo Egizio è stata molto stimolante e, sì, pensiamo di proseguire su questa strada anche se la formula del programma non ci porta necessariamente in un museo ma, ad esempio, in una città o in un sito archeologico, luoghi che sono parte del nostro sapere. Anche per questo programma vale il discorso che facevo prima: gli ospiti che ci hanno accompagnato nella serata (tra loro, Giovanni Soldini e Riccardo Muti, ndr) sono persone che ci rendono orgogliosi di essere italiani con cui andresti volentieri a cena per parlare di tante cose».Abbiamo parlato del rapporto padre-figlio. Lei, di figli, ne ha tre: tra loro ce n’è almeno uno che ha intenzione di seguire le orme del papà e del nonno. «Da padre dico che non bisogna dire ai figli ciò che devono fare quanto consigliarli su ciò che non devono fare. Premesso questo, i miei figli sono curiosi e stimolati dalla voglia di sapere. Non so se, quando saranno più grandi, ci sarà ancora la televisione com’è adesso o se ognuno si farà il suo palinsesto. La tv con cui ho cominciato io non è certo quella che c’è adesso. Sicuramente, però, ci sarà sempre un grande bisogno di qualcuno che sappia raccontare la cultura o la scienza. Date e notizie che si possono trovare sui libri, i motivi per cui sono successe certe cose no».
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