martedì 6 dicembre 2016
Il libro di Alfio Caruso sul «migliore anno della nostra vita»: il boom economico, la “Dolce vita” e una grande fiducia nel futuro. «Una stagione irripetibile che ci insegna a credere in noi stessi»
1960, un tuffo nell'Italia che sognava
COMMENTA E CONDIVIDI

Il Pil cresce dell’8,3%, dopo due anni in cui ha segnato il +5,3 e il +6,6. Il Financial Times assegna alla lira l’Oscar delle valute. Crediamo nel frigorifero, la porta magica che si apre e illumina il cibo, ma anche nella televisione e nella lavatrice. Si gira spensierati in Vespa. E la macchina diventa a portata di tutti: spopolano le utilitarie a guscio d’uovo della Fiat, la 500 e la 600. E con la diffusione dell’auto scatta la gita fuoriporta e il picnic domenicale, cantando Volare. Vengono inaugurate la Genova-Ventimiglia, la Brescia-Verona, la Bologna-Firenze e da lì a poco sarà completata l’autostrada del Sole che unisce Milano a Napoli. I bambini vanno a letto dopo il Carosello, trasmissione cult del Programma Nazionale della Rai. Debutta il calcio radiofonico di Tutto il calcio minuto per minuto e con esso il pallone diventa un mito che rimbalza dai campi di serie A a quelli dei dilettanti. Nei teatri la sfida è fra Renata Tebaldi e Maria Callas, mentre sul grande schermo scorrono le immagini della Dolce vita, il capolavoro di Federico Fellini con Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una Roma magica e sognante, pronta a ospitare le Olimpiadi. Benvenuti nel 1960, (forse) il migliore anno della nostra vita. Per chi c’era e pure per chi ancora non era nato. L’anno in cui l’Italia raggiunge l’apice del boom economico. A raccontarlo – senza dubbi e senza “forse”, in maniera dettagliata e assai gustosa – è lo scrittore Alfio Caruso (1960, Longanesi, pagine 352, euro 18,60). Un viaggio fulminante e meraviglioso che coinvolge, fa sognare e rimpiangere – di fronte all’ultima analisi del Censis dei giorni scorsi («il Paese è bloccato e sfiduciato») – anni in cui l’Italia aveva il futuro davanti. Un lavoro che nasce da un sentimento – lo ammette l’autore – di «nostalgia»: «eravamo ottimisti, fiduciosi, pieni di sprint, eravamo certi che oggi era meglio di ieri, il domani sarebbe stato meglio di oggi e il dopodomani addirittura strepitoso; ci si innamorava non tanto e non solo delle attrici, ma delle loro avventure, delle loro storie che seguivamo sulle cronache dei rotocalchi. La guerra era davvero alle spalle e si viveva una vita coniugata al futuro». Una tensione positiva che scorreva, simbolicamente, al cinema. «In pochi mesi – ricorda Caruso – il numero di pellicole prodotte e poi passate alla storia fu impressionante: dopo la Dolce vita, ecco Rocco e i suoi fratelli di Visconti, Tutti a casa di Comencini, La ragazza con la valigia di Zurlini, il Bell’Antonio di Bolognini, La ciociara di De Sica. Furono staccati 748 milioni di biglietti, oggi è un miracolo se si arriva a 100 milioni, e se è vero che la tv non era ancora diffusissima nelle case, sul grande schermo andava in onda un sogno collettivo. Il cinema era un vecchio amico, del quale ci si fidava a occhi chiusi. È stata una stagione irripetibile».

Caruso sciorina storie e aneddoti, passa dalla politica alla cronaca e al costume, fotografando la società in maniera puntuale e scanzonata, sulla scia anche delle battute di Ennio Flaiano e Marcello Marchesi: «Essere o benessere? ». «Perché non tutti sono convinti della bontà di questo boom e del bisogno di tutti questi “beni”. Sull’Avanti lo scrittore Luciano Bianciardi, il sottovalutato autore della Vita agra, prende di mira “l’epidemia del sabato” che colpisce le donne milanesi: il tic del borsellino e la mania di svuotare i supermercati». Una epidemia che si ferma a… Eboli: perché fu in realtà un boom a metà, di mezzo Paese, con il Sud sempre indietro a inseguire: malgrado la Cassa per il Mezzogiorno, istituita nel 1950 con una dotazione di 1000 miliardi di lire (17,5 miliardi di euro), nel Meridione in dieci anni sono diminuite la produzione industriale (dal 14,9 al 14,6%) e la parte di pertinenza del Pil (dal 23,4 al 21,2%, quote rimaste simili fino a oggi). Così milioni di braccianti, contadini, operai salgono speranzosi con le loro valigie di cartone sul treno “Freccia del Sud” per cercare fortuna al Nord (obiettivo Fiat, Eni, Olivetti, Falck, Edison...) o all’estero (come faranno 360mila paisà): «In cima alle preferenze c’è il Canada. Lo aveva capito in anticipo Mario Panzeri autore del fortunatissimo motivetto Casetta in Canadà. Tuttavia le difficoltà non chiudono lo spazio alla leggerezza. E se la settimana è stata dura, poi arriva il giorno di festa, della passeggiata con l’abito buono, dei pasticcini da portare a casa. Il liet-motiv lo dà il refrain del motivetto che conclude Il musichiere, la trasmissione di maggiore successo del periodo: Domenica è sempre domenica».

Ma qual è il ricordo personale di Caruso del 1960, bambino di 10 anni in Sicilia? «I 200 metri del campione olimpico Livio Berruti, una vittoria mitica, simbolo della corsa italiana. E poi il giro d’Italia: vivevo a Catania e guardare il giro in tv era come viaggiare nel Paese. Anche se l’anno si aprì proprio con una notizia tristissima sul mito del ciclismo e che oscurò il sole di quei momenti magici. L’annuncio lo diffusero i notiziari radio il 2 gennaio dopo le 10: “È morto Fausto Coppi”. La notizia del decesso sconcertò prima ancora di addolorare. I quotidiani del mattino avevano pubblicato alla bell’e meglio la notizia del ricovero di Coppi, il giorno prima in ospedale. Fausto veniva descritto cosciente: uscendo da casa aveva raccomandato al figlioletto Faustino di essere ubbidiente con la mamma, Giulia Occhini, la Dama Bianca. Poteva andarsene così il “campionissimo”, l’“uomo solo al comando”? Era il più grande ciclista di tutti i tempi, più di Bartali. Ma insieme a Bartali e al Torino di Valentino Mazzola aveva acceso la fantasia di un Paese massacrato dalla guerra e voglioso di riscatto. Quella morte fu un terremoto, ma non spense le speranze. Fu quasi un passaggio di consegne, dal tempo della bicicletta a quello dell’auto. Si poteva correre di più. L’Italia ce la poteva fare».

Cosa resta ora del 1960? «Niente… Non resta niente – risponde Caruso –. Anzi no – riprende senza cedere al pessimismo –, ci restano Mina e Celentano. Da poco hanno pubblicato un nuovo album insieme. Allora il “ribelle” Celentano incarnava il ruolo di battistrada del cambiamento. Era un teddy boy, come i ragazzi poco di buono in Inghilterra, che cantava Il tuo bacio è come il rock. E poi c’era Mina, diciannovenne della buona società cremonese: per il canto aveva abbandonato il collegio di suore e la scuola. Durante una vacanza in Versilia si arrampicò sulla prestigiosa pedana della Capannina e da lì spiccò il volo. Da Be bop a lula a Nessuno ha conquistato la scena. La sua cofana in testa era una rivoluzione anche del costume… Ma c’è una lezione che possiamo imparare da quella stagione: l’importanza di credere in noi stessi. Eravamo più poveri di oggi, ma c’era un tale ottimismo… Mi ricordo la festa quando arrivava un elettrodomestico a casa, non parliamo dello scaldabagno. Adesso non abbiamo bisogno di cose. Abbiamo bisogno di poter sognare ancora, di credere nelle nostre possibilità. Per poter cantare spensierati, anche oggi, Domenica è sempre domenica».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: