Quello che non abbiamo imparato dalla strage di Srebrenica
Trent’anni dopo il mondo ricorda l’orrore. Ma le responsabilità politiche restano irrisolte. Se la Serbia ancora fatica a fare i conti con il proprio passato, c’è chi lavora per costruire memoria

Alcuni giorni di 30 anni fa, attorno all’11 luglio, presso la città di Srebrenica nell’attuale Repubblica Serba di Bosnia, 8.372 maschi dai 14 ai 76 anni (secondo il numero di salme sinora recuperate) vennero trucidati da unità paramilitari serbobosniache comandate da Ratko Mladić, forse non fiancheggiate ma certo sostenute dall’esercito a guida serba dell’ex Jugoslavia, con comando a Belgrado, capitale dell’ex Confederazione. Le vittime erano musulmani da annientare in una pulizia etnica programmata, in quanto l’area di Srebrenica (e di vari comuni della Bosnia Erzegovina orientale) rappresentava più che una enclave, una spina nel fianco per la confinante Serbia antimusulmana. Così i circa 8.400, scaricati a ondate dai camion, vennero falciati con le mitragliatrici e rovesciati in immense fosse comuni; bruciati con la benzina, fatti a pezzi con le ruspe e sepolti, sotto la terra che lungamente bollì per la decomposizione della massa di cadaveri. Srebrenica rappresenta la più grave strage di civili inermi dopo la Seconda guerra mondiale. Tutti quei bosgnacchi, come si chiamano gli abitanti della Bosnia Erzegovina musulmana, erano convenuti nella città e nei dintorni in quanto la risoluzione Onu 819 avrebbe dovuto fare di Srebrenica “un’area di sicurezza”, in un conflitto avviato a conclusione, sopraggiunta poche settimane dopo, in autunno, coi cosiddetti “accordi di Dayton” negli Usa. Quindi le famiglie che fuggivano verso Srebrenica (i cui maschi, non belligeranti, erano stati tutti disarmati) lo facevano per aspettare la fine della guerra sotto la protezione Onu, affidata ai caschi blu olandesi. Questo contingente Unprofor era stato lasciato in Bosnia senza mezzi e senza disposizioni, a invocare per Srebrenica l’invio, da parte del comando di Zagabria, di soccorsi (soprattutto arerei, al cui apparire ogni ostilità cessava).
E c’è di peggio. A mano a mano che si avvicinavano a Srebrenica i serbobosniaci di Mladić, violando il territorio teoricamente protetto, l’assenza di disposizioni da parte del comando non solo completò lo sbandamento degli olandesi, ma li trasformò in collaboratori, più o meno consapevoli, dei serbi nello sterminio. Cooperarono infatti a separare i maschi dalle donne e dai bambini più piccoli, condividendo l’assurda rassicurazione che scopo di tutto il rastrellamento fosse d’interrogare i bosgnacchi per sondare il loro coinvolgimento in precedenti azioni militari. Loro invece, i musulmani, si resero subito conto che andavano a essere massacrati dai loro nemici storici: urlavano, piangevano dai camion strapieni per essere salvati, ma nessuno ascoltò quelle grida disperate. Purtroppo i filmati mostrano i capi olandesi accanto al comandante della strage Mladić, intento a regalare caramelle ai più piccoli, mentre a poca distanza gli faceva ammazzare genitori, fratelli, nonni e parenti. La ricostruzione necessariamente sommaria dei fatti del ‘95 ne rende difficile la comprensione per chi non abbia familiarità con le divisioni amministrative-etnico-religiose dell’ex Jugoslavia. Sarà qui sufficiente dire che l’accertamento delle responsabilità è talmente complesso, che si protrae a tutt’oggi, da 30 anni, con un’inquinata e intralciata azione giudiziaria presso varie corti internazionali; azione che ha portato, sì, alla condanna all’ergastolo di Mladić e del presidente Karadžić, nonché nel 2017 all’accertamento delle colpe dei caschi blu olandesi, relativamente però a “soli” 300 musulmani per i quali si è raggiunta la prova che li avessero respinti o cacciati dal loro compound, dove i 300 cercavano protezione, consegnandoli così agli uccisori.
Né è mancato in Olanda un encomio riservato loro per esser stati ingiustamente accusati di corresponsabilità coi serbi. Infine, sebbene a pieno titolo vada definita “genocidio” l’operazione di pulizia etnica (trucidare i bosgnacchi nell’enclave, affinché restasse solo popolazione serba), la stessa Onu è tuttora, al suo interno, quanto mai divisa sull’uso della parola e prevale l’orientamento di non usare il termine. La storia dunque si ripete, come se i poveri morti potessero trovare conforto nel venir qualificati vittime di un genocidio, anziché di una “normale strage”. Quanto a loro, ai morti, lo stato attuale è di circa 6.400 cadaveri riconosciuti sulla base del dna, “riassemblati” per quanto ne resta e sepolti col consenso dei familiari; mentre degli altri 2.000 o non c’è più traccia, oppure stanno venendo lentamente ricomposti nei depositi dove i resti riesumati vengono portati per le analisi. Tra i più recenti cadaveri recuperati ci sono due fratelli, uno maggiorenne, l’altro di sette anni, che non si era voluto staccare dal primo. L’orrore di questa vicenda, non l’unica ma la maggiore del conflitto balcanico del 1992-95, ha ispirato romanzi, saggi e due drammatici film, Resolution 819 (2008) di Giacomo Battiato e Quo vadis, Aida? (2020) di Jasmila Žbanić. Cosa non abbiamo imparato da Srebrenica? Che l’umanità è a “continuo rischio di Srebrenica” per le motivazioni più varie, in cui il male è sempre attivo e nasconde il volto nel buio delle pieghe della storia, laddove nulla fa luce. Periodicamente richiama motivazioni etniche, religiose, di rivendicazioni territoriali, di tutela d’interessi definiti vitali e di quant’altro, col che spesso tutto si riduce a uno sterile dibattito nominalistico tra gli storici, oltre che a qualche stentata condanna presso le corti di giustizia, fatalmente e progressivamente remote, col passare del tempo, dalla considerazione delle immense sofferenze umane.
Duemila anni fa qualcuno, mentre veniva catturato nell’orto del Getsemani per essere avviato alla crocifissione, ammonì sul fatto che il male è senza posa attivo nell’oscurità, con le parole: «Questa è la vostra ora, questa è l’ora di potere della tenebra». Proprio per questo Srebrenica andava ricordata e non confinata nell’oblio, specie dopo che dal 2024, l’11 luglio è stata dall’Onu - finalmente, tardivamente - dichiarata “Giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica”. E sebbene, per rispetto della tragedia, ogni magniloquenza vada a questo punto evitata, forse si può dire che a Srebrenica “il potere della tenebra” ha fatto un’eccezione, come raramente accade nella storia, rinunciando a celare il suo volto. Era troppo trionfante, in quell’orrore senza pari, per nasconderlo.
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